“Adoro la mia patria perché adoro la Patria;
la nostra libertà, perch’io credo nella Libertà;
i nostri diritti, perché credo nel Diritto”
(*) Richiamo la vostra attenzione su due frasi.
La prima: l’organizzazione degli Stati Uniti d’Europa costituisce la premessa indispensabile per l’eliminazione del militarismo imperialista.
La seconda: un’Europa libera e unita è premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna di cui l’era totalitaria rappresenta un arresto.
La prima frase è, nella sostanza, rintracciabile nel saggio di Spinelli Gli Stati Uniti d’Europa e le varie tendenze politiche, mentre la seconda è tratta dal Manifesto di Ventotene.
Coniugando queste due frasi si può giungere ad una contraddizione, ad una contrapposizione che possiamo così ridurre: da una parte il binomio Stati Uniti d’Europa-Civiltà dall’altra Militarismo e Totalitarismo. Nel mezzo, come strumento di risoluzione del contrasto, la “Pace”, che possiamo considerare non il fine ultimo ma il presupposto per la realizzazione – per dirla con Bobbio – di altri fini, quali la libertà, la giustizia sociale, lo sviluppo economico, e via discorrendo.
Spinelli rifletteva a Ventotene (ma è innegabile a distanza di oltre 70 anni) sulla preminenza dell’Europa (nel mondo); questa era riconosciuta nella propria qualità di “centro di irradiazione di civiltà”, ma, stante la incompiutezza istituzionale, oggi, nella prospettiva federale, ha quasi del tutto vanificato la spinta politica, morale e intellettuale della propria pacificazione; e ciò ha, al contempo, messo in un angolo, buio, il grande passo, quello della pacificazione mondiale.
Parlando di civiltà europea vengono incontro le parole contenute in una lettera di Eugenio Colorni a Spinelli (giugno-luglio 1943) , il quale, sul tema della civiltà personalistica, la connotava in modo indipendente “dalla struttura istituzionale e dalla volontà degli uomini e delle ideologie che la dominano”, facendola invece determinare “dalla somma delle difficoltà e dei pericoli interni ed esterni che (…) si trova a dover fronteggiare”. “Penso – scriveva Colorni - che sarebbe un effettivo progresso concettuale e storico disabituarsi dal considerare concetti come civiltà personalistica o di massa come categorie, criteri valutativi di un’epoca o di un regime. (…) Oggi il criterio da usarsi è civiltà nazionalistica o civiltà cosmopolitica”.
Quanto siano attuali queste parole - superando qualsivoglia steccato ideologico - è del tutto evidente. Il fatto macroscopico sta nell’individuare nella “civiltà nazionalistica” quel freno al duraturo successo di nuovi sviluppi dell’integrazione europea, l’anacronismo sta nello Stato nazione che «non è diventato forza motrice, bensì ostacolo per il progresso» .
Populismo, sovranismo, secessionismo.
Quante volte siamo “costretti” a (im)batterci in termini come questi.
Cosa mostrano? Disagio verso lo Stato e la democrazia, la richiesta di un nuovo ordine politico, “che ridefinisca i criteri di inclusione e di esclusione, il dentro e il fuori”, come ha scritto recentemente Carlo Galli : “più che della fine dello Stato si tratta quindi di una sua nuova dislocazione, su un’altra scala: più piccola, etnica o municipale (…); più vasta, federativo-continentale, o imperiale, secondo altre prospettive”. E ogni riferimento alla Catalogna, tanto per citare un esempio, non è assolutamente casuale.
Forse si avvicina – anziché allontanarsi – la morte dello Stato, del “dio mortale” di Hobbes, ma a ben guardare, la rivisitazione della propria concezione dimensionale, frammista a pretese di esclusione sociale, politica e civile, si assiste all’allargamento della definizione di “straniero”.
Straniero! Termine derivato del latino, extraneus, «estraneo, esterno». Estraneo a chi? Esterno a cosa?
La distinzione è frutto di una barriera, concettuale, direi, culturale. Questa barriera è stata montata nei secoli, fondandosi nella separazione tra coloro che sono liberi e coloro che non lo sono nel medesimo “spazio vitale”.
C’è chi, come Mazzini, pur nei nostri tempi moderni, ha elaborato un aspetto della teoria della libertà politica, il patriottismo. Oggi abbiamo sotto gli occhi ciò che accade nel confronto tra fautori del cosmopolitismo e i difensori del patriottismo, nell’accezione distorta che emersa dalla Seconda guerra mondiale, come criticato anche nel Manifesto di Ventotene. I primi pongono al primo posto il valore dell’umanità e gli universali principi di libertà e uguaglianza, mentre i secondi dicono che la patria è al centro, fondamento della vita morale dell’individuo e della democrazia. Mazzini ha connesso la patria all’umanità, e nel concetto di patria la giustizia sociale. A differenza ancora dei nostri contemporanei, Mazzini insegna che non c’è alcun bisogno di rinunciare al patriottismo per sostenere la causa dell’umanità o di rinunciare al principio dell’umanità per essere buoni patrioti. Bisogna operare per la nostra patria, con la consapevolezza dei doveri verso l’umanità. Non può esserci alcuna contraddizione fra la politica interna e la politica internazionale. Ruota intorno alla libertà questo agire politico ma anche intorno al sacrificio; se un popolo si sacrifica per l’umanità, rende la sua patria immortale.
Il vero patriottismo è l’opposto del nazionalismo, così concludeva ancora Mazzini. La nazionalità degenera in meschino nazionalismo quando chi lo promuove trascura il principio che “la libertà di un popolo non può vincere e durare se non nella fede che dichiara il diritto di tutti alla libertà” . Separato dalla libertà il nazionalismo è una maschera del governo illegittimo e ingiusto. La nazionalità vuole il prevalere del diritto sulla forza. I patrioti amano la propria nazione, ma riconoscono come compatrioti chiunque creda nella libertà.
Dove sta la chiave di volta, il distinguo determinante? Nel concepire la nazione, che se rimane strumento per il bene e per il progresso dell’umanità ha una connotazione positiva, se questa vuole esaltare le condizioni geografiche, la storia, la tradizione, il linguaggio, i costumi allora – per dirla con Mazzini – la nazione non è degna del nostro amore, anzi merita di scomparire.
La patria non è un aggregato, ma è una associazione, non v’è patria veramente senza un diritto uniforme, e questo è violato dall’esistenza di privilegi e di “ineguaglianze” .
Quel male, neanche tanto oscuro, è annidato nell’universalizzazione del principio nazionale in Europa che ha generato la prima guerra mondiale e ha portato alla seconda guerra mondiale, facendo scendere i titoli di coda in Europa, “che può ormai ritrovare un ruolo attivo nella storia– come ha scritto Albertini – solo se saprà finalmente risolvere, con la sua riunificazione, il problema internazionale posto dalla creazione dello Stato nazionale” .
La concezione dello Stato nazionale è, un fatto culturale, ribadisco. Ancora oggi, e meglio, con le pretese della Gran Bretagna e della Catalogna, sembra si possa evocare la nota di Spinelli che focalizzava la cultura europea come basata su una educazione e una formazione spirituale su posizioni nazionalistiche.
“Ma la cultura europea – ha scritto Spinelli - ha da molto tempo superato i gretti limiti nazionali, e la sua fioritura ha un carattere cosmopolitico. Lo stato più elevato della cultura europea è al di là di qualsiasi nazionalismo, ed è anzi condannato a isterilirsi e perire se l’Europa procederà ancora sulla via dei nazionalismi, poiché questo corso gli toglierebbe l’alimento del libero scambio mondiale delle idee, e gli impedirebbe di esercitare la sua naturale funzione di indicare agli stati meno colti le vie dell’elevazione spirituale. La Federazione europea sarebbe la garanzia del cosmopolitismo intellettuale, e della possibilità, per l’alta cultura, di esercitare la sua funzione di guida. In questo campo, la Federazione potrebbe perciò contare sul sostegno dell’elemento più alto e più fecondo, e sulla resistenza di larghi strati dell’elemento più mediocre, destinato a svanire quando non ci fosse più una voluta politica nazionalistica interessata a formare artificialmente atteggiamenti spirituali non più corrispondenti al grado effettivamente raggiunto dallo spirito”.
Questa è una amara conclusione.
La responsabilità del “politico”, di colui che genera e/o interpreta i canoni della politica, ne fa oggetto anziché soggetto della propria azione, crea esigenze e prospettive artificiali, distorce e piega, a propri interessi, il popolo, in gran parte silente e distaccato, freddo, urlante solo se estremista, populista o sovranista che sia.
E’ sbagliata la divisione culturale e politica della società europea? Certo che lo è! Ma esiste e va affrontata.
E’ sbagliata la visione attuale dei partiti, arroccati nell’anacronistico nazionalismo? Ovviamente! Noi federalisti non perdiamo tempo e siamo consapevoli del nostro ruolo soprattutto nei confronti di questi ultimi, interlocutori irriducibili per la famosa conquista del potere nazionale al fine di indirizzarlo alla costruzione della federazione europea.
Il fattore tempo.
Come federalisti l’abbiamo sempre assecondato, forse non preoccupandoci troppo del suo scorrere, consapevoli, erroneamente, che prima o poi la Storia c’avrebbe dato ragione.
Ma non è così. Noi non vogliamo perdere tempo ed è ciò – convengo con Albertini – che costituisce l’elemento irriducibile che divide i federalisti, piccola avanguardia separata dal grosso delle forze, dai partiti: “I federalisti – ha scritto Albertini - hanno cercato, e cercano, con la loro organizzazione, e la loro politica, di offrire un esempio vivente di unità europea avanti lettera perché si vive nel tempo… Ma la realtà contro la quale i federalisti si battono non è incerta. I federalisti sono stati, sono, e saranno sempre, i nemici dello Stato nazionale, della divisione nazionale delle forze politiche e sociali” .
Ebbene sì, i federalisti sono realisti non utopisti. Gli utopisti, cercatori, questi sì, di “un fine assurdo e irrealizzabile”, come li definì Spinelli, sono coloro che pensano “che si possa, nel quadro degli Stati nazionali, avere ancora una garanzia qualsiasi di libertà, di benessere, di pace” .
(*) contributo all'Ufficio del dibattito MFE-GFE, Firenze 14-15 ottobre 2017