Molti miei amici di ritorno da Bruxelles mi hanno manifestato una certa delusione, qualcuno per esempio mi ha detto senza mezzi termini che Amsterdam è un’altra cosa ed ho quasi litigato con un’amica francese perché avevo definito la capitale belga una piccola Parigi. A ben poche città tra le tante che ho frequentato mi sono affezionato come a Bruxelles. Una piccola capitale che mi ha fatto innamorare dei suoi mille colori, dei suoi frammenti. Chi pensa ad un unico melting pot sbaglia: il moderno e poliglotta quartiere europeo è profondamente diverso dai quartieri di immigrazione e non tutti i quartieri d’immigrazione hanno le stesse caratteristiche e le stesse criticità.
Ricordo come se fosse ieri il mio primo viaggio a Bruxelles, arrivando dall’aeroporto di Charleroi l’autobus procedeva a fatica facendo lo slalom in viuzze, rimanendo quasi incastrato negli alberi ancora senza foglie, poi attraversammo un quartiere di immigrazione africana - né in Europa né fuori dall’Europa ho mai visto una zona simile - ed infine arrivammo a Gare du Midi. Sceso dall’autobus mi incamminai a piedi verso il centro imboccando Bulevard Lemonnier, iniziai a pensare di esser stato tratto in errore dalla mappa della città, non potevo essere vicino al centro, invece all’improvviso mi trovai a Place de la Bourse, a due passi dalla Grand Place.
Probabilmente Bruxelles, capitale piccola e importante, è piena di quartieri poveri o che potrebbero essere tenuti meglio, ma io sono stato rapito dal suo disordine sistematico, dai suoi mille frammenti. Dalle sontuose case delle corporazioni della Grand Place alla Piazza del Mercato, dalla chiesa di San Bonifacio ad Ixelles ai palazzi del centro, dai negozietti che vendono waffel e cioccolato alle stradine nei pressi del tribunale c’è qualcosa che mi attrae profondamente. Bruxelles è oggi una città blindata, e purtroppo quattro mesi di pattugliamenti e rastrellamenti sembrano esser trascorsi invano, perché la strage non è stata evitata. Chi vive e chi ama Bruxlles deve poter tornare presto a passeggiare serenamente di notte per le vie del centro in cui le facciate bianche e rosse dei palazzi sono decorate da murales illuminati a giorno.
Tornato a casa una volta dissi “Bruxelles è una fusione a freddo tra Stoccolma e Palermo”. Il clima piovoso è quello di Londra, quasi ovunque ci sono i segni dell’architettura nordica, per certi aspetti anseatica, si odono tante lingue prima fra tutte il francese, c’è qualcosa di nettamente meridionale.
Sono legato alla capitale belga non solo perché credo profondamente nei valori di Monnet, Schuman e Spinelli, ma anche perché vengo da una terra di emigrazioni, la Sicilia, che la storia ha indissolubilmente legato al Belgio. Quando il mio paesello e la Scala dei Turchi non erano ancora posti turistici passavo le mie mattine d’estate a percorrere le spiagge gialle racchiuse nei pendii bianchi della mia terra, brulicavano di bagnanti che parlavano francese, erano i figli dei miei tanti compaesani che nel secondo dopoguerra avevano lasciato la calda Sicilia per un lavoro in miniera. Non dico proprio pazzie. Bruxelles riesce ad essere un po’ una capitale nordica, con le sue cupole e le sue guglie, ed un po’ città mediterranea. Si, le viuzze della movida, con i murales illuminati, bellissime anche con i palazzi messi male, mi ricordano i concerti tra i palazzi del Ballarò di Palermo. E poi, alla fine, ho trovato veramente anche un pezzo di Sicilia a Bruxelles, tra la Grand Place e la Bourse ho scoperto un ristorantino con le panchette in similpelle, sembra una birreria di una puntata dell’ispettore Derrick, gestito da un signore originario di Sciacca, venti minuti in automobile dal mio paese di origine. Sono andato spesso nel suo locale, ad ascoltarlo, a cercare di capire i suoi timori per il futuro. Come molti italiani che sono andati a vivere in Belgio nel secondo dopoguerra pensa che il piccolo paese nel cuore dell’Europa non offra più le prospettive di una volta. I mondi contrastanti di Bruxelles si risolvono (o si risolvevano) nell’incontro tra la paura del futuro, del mondo globalizzato, del diverso e dell’euforia cosmopolita.
Eppure nonostante la sua storia e la sua atmosfera, il problema integrazione, come in molte altre città europee, a Bruxelles esiste. I problemi non si risolvono né negandoli, né urlando che ci sono i barbari alle porte. L’islam non è terrorismo, non lo è in Italia e non lo è in Belgio, non voglio e non posso credere che i proprietari degli alberghetti del centro in cui ho dormito, il gestore dell’internet point dietro Place de la Bourse, i ristoratori delle stradine che si nascondono tra la Grand Place e la cattedrale e il barista che mi ha servito un caffè mentre andavo verso il canale siano tutti simpatizzanti dell’ISIS. Dispiace che qualche ministro di un paese europeo affermi che Lampedusa è il colabrodo da cui arrivano i terroristi, dispiace perché gli attentatori di Parigi e Bruxelles non sono arrivati a casa nostra su un barcone. Serve una nuova politica del Mediterraneo, serve un approccio olistico, che non vuol dire riempirsi la bocca di paroloni o giocare a fare i sociologi, ma lavorare per cercare di risolvere il cortocircuito tra periferie d’Europa e periferie del mondo, è necessario affermare il principio che le moschee ed i centri culturali islamici europei non devono essere finanziati dai sauditi e che le Banlieue non possono essere rivitalizzate con i soldi di un fondo qatariota. L’Europa continua ad essere un continente ricco, le mancette delle petromonarchie non ci servono. E’ necessario fare integrazione oltre la retorica: a cosa serve lodare il multiculturalismo e creare un’unica religione laica se poi interi quartieri non hanno accesso al mercato del lavoro?
Infine ha ragione chi afferma che la battaglia contro il terrorismo si vince con la cultura; ma nel breve termine servono anche misure che garantiscano la sicurezza e riportino lo Stato nelle nostre periferie. In Europa abbiamo combattuto il terrorismo ed abbiamo combattuto le mafie. Possiamo fare tesoro di esperienze passate e costruire un futuro di prosperità, sicurezza e libertà distruggendo i canali di finanziamento e di indottrinamento che alimentano il terrorismo e sgominando le reti terroristiche in quartieri che oggi sembrano non più controllabili ma sono molto più penetrabili dei paesini in mano alla mafia.