In un certo senso ce lo si poteva aspettare. Il Regno Unito ha sempre mantenuto nei confronti dell’unione europea una scettica distanza, accostandosi e aderendo alla CEE (come allora si chiamava l’antenata dell’UE) quando non ha proprio potuto farne a meno. E anche allora i suoi governi hanno spacciato l’entrata nella CEE come non più che un’adesione a un’area di libero scambio a integrazione negativa e hanno usato ogni mezzo (compreso l’allargamento) per bloccare, ritardare, diluire o pervertire qualsiasi evoluzione verso una maggiore unione politica e sociale. Un tale ruolo peraltro non è dispiaciuto a pezzi rilevanti dell’establishment europeo, incluso l’italiano, quelli pronti a dichiarare che “non può esserci Europa senza l’Inghilterra” e hanno favorito generosi opt-out e concessioni al Regno Unito che potevano pure apparire di facciata, come quelle accordate qualche mese fa proprio per scongiurare Brexit, ma che hanno finito per indebolire ulteriormente i contenuti e la credibilità del progetto europeo.
Nel frattempo i conservatori britannici coniugavano l’accelerazione neoliberista (che implicava un’internazionalizzazione dell’economia senza precedenti in Europa) con la mobilitazione di una retorica nazionalista vecchia maniera diretta in primo luogo contro l’integrazione europea, mentre Partito laburista (già per tradizione fra i meno internazionalisti del continente) non riusciva a far interamente propria l’idea europea, lasciando in-fine al New Labour il compito di rappresentare un europeismo glamour, alquanto superficiale e dai mille limiti. Di conseguenza in UK si parla generalmente di Europa o in termini di una “Bruxelles” burocratica e impicciona, a cui contrapporsi, o come di uno spazio per tutelare e affermare gli interessi britannici. Non come di un progetto che si può criticare, ma di cui si è comunque parte e che costituisce la fibra della pro-pria vita quotidiana. Manca cioè quell’europeismo spontaneo, popolare, nato dall’esperienza migratoria o dalla memoria storica dei conflitti, delle dittature e delle guerre mondiali Per quale motivo allora gli appelli a “restare”, basati su calcoli ragionieristici di costi e benefici, avrebbero dovuto suonare convincenti ad elettori provati dalla globalizzazione e dalle politiche austeritarie governative, spaventati dall’immigrazione “comunitaria” (il cui afflusso non controlla) e abituati per anni e anni da politici e media a temere un’idra chiamata Bruxelles?
Se questo è il quadro di fondo, che pare confermare il Regno Unito nel suo solito ruolo di palla al piede o guastatore all’interno della UE, diventato ora grazie al referendum good riddance, nondimeno anche in UK nel frattempo qualcosa è cambiato. In questi ultimi anni in Europa, scandito dalla crisi finanziaria mon-diale e dell’eurozona, dall’affermazione di Syriza in Grecia, dal brutale trattamento del governo e del po-polo greco da parte delle istituzioni europee, dalla crisi dei rifugiati, è cresciuto (anche se magari non anco-ra in termini strettamente numerici…) l’europeismo critico, o altereuropeismo, che potenzialmente allarga i confini delle soluzioni transnazionali ai problemi d’oggi moltiplicandole, in contrasto con l’europeismo tradizionale che si affolla sempre più al centro dello schieramento politico, che è mosso da logiche emergenziali, e si mostra sempre meno indipendente o propositivo nei confronti delle politiche e delle istituzioni europee.
Ci sono segni importanti in UK di questo modo nuovo di pensare l’Europa. Si pensi in primo luogo al ruolo “oggettivamente” svolto dai movimenti nazionali. Non sarà sfuggito che, a parte le aree urbane inglesi e gallesi, gli unici territori dove si è affermato il Remain sono Scozia e Irlanda del Nord, regioni cioè dove c’è una questione nazionale ancora aperta in termini specifici alla storia e assetto costituzionale del Regno Unito. Non era affatto scontato che il perseguimento di un determinato progetto nazionale si accordasse con un consenso generalizzato a “restare in Europa”. Ovviamente non tutti coloro che hanno votato Re-main in Scozia appoggiano l’indipendenza scozzese, non tutti quelli che hanno votato Remain nell’Irlanda del Nord auspicano l’unificazione irlandese. Allo stesso modo, il voto per Remain di per sé non implica af-fatto un atteggiamento coerentemente o incondizionatamente “europeista”. Nondimeno, il fatto che in queste aree sia all’ordine del giorno la costruzione di rapporti politici o sociali più inclusivi, egalitari, in una parola più “democratici” di quelli attualmente esistenti, in un contesto etnoculturale necessariamente plurale, e che per le specificità di queste aree la dimensione pubblica o comunitaria sia più rilevante che altrove, può ben aver contribuito ad arginare il risentimento, il senso di esclusione o la paura dell’immigrazione che avrebbe determinato la prevalenza del Leave, specialmente da parte di “chi non ha” – non è che la Scozia e l’Irlanda del Nord siano le aree più opulente del Regno Unito –, e quanto meno a relativizzare la narrazione nazionalista “anglo-britannica”, che suona tanto più convincente in quanto ha i suoi omologhi in qualsiasi realtà nazionale europea (il che non significa minimizzare i problemi di conviven-za che ancora persistono nell’Irlanda del Nord dopo decenni di un conflitto nazionale sanguinoso).
In altre parole: il community building a livello nazionale o locale in una società plurale fa bene all’Europa come progetto. Tutto il contrario di quel che appare da quei dirigenti nazionali ed europei che almanacca-no sul che fare per “fermare i populisti”, e intanto impongono politiche che impoveriscono e isolano i più deboli, e riducono o neutralizzano la partecipazione o l’espressione della volontà popolare. Tutto il contrario di quel che appare da quegli europeisti al loro seguito, i quali sembrano concepire l’integrazione euro-pea in termini di riduzione della sovranità dei cittadini e l’Europa come uno stato nazionale d’antan, impe-rioso nell’esigere acquiescenza e pronto a calpestare le istanze ritenute in tutti i sensi inferiori.
Un altro segno di novità che viene dalla Gran Bretagna è la nascita di un europeismo sorto nelle realtà urbane, in particolare a Londra, e in cui hanno un ruolo importante i migranti europei: da una parte un euro-peismo orientato decisamente a sinistra (che già rappresenta un qualcosa di inedito in un paese dove il richiamo all’Europa è stato in generale elitario e pro-business), come ad esempio il gruppo Another Europe is Possible, che ha lottato fieramente nei mesi passati per un “radical remain”, dall’altra gruppi che si battono per il rispetto dei diritti dei migranti europei e quindi per la cittadinanza europea, come New Europeans, animato dall’ex deputato laburista Roger Casale, o lo Europeans Party fondato dal dentista romeno Tommy Tomescu, che si batte contro le discriminazioni nei confronti degli immigrati specialmente dell’Europa dell’Est e per la valorizzazione della cittadinanza europea nei confronti dei nativi britannici, fino a esporsi in prima persona. Il tema della migrazione comunitaria (assieme a quello dei profughi), è da tempo centrale nel dibattito sull’Europa in UK, in quanto è in tale ambito che la perdita di sovranità nazio-nale si manifesta nella sua evidenza.
Alla centralità di questo tema in UK corrisponde invece la sua sostanziale rimozione da parte degli europeisti negli altri paesi UE. In Italia l’immigrazione è “extracomunitaria” per definizione. La Germania ha sostenuto negli anni scorsi assieme ad altri paesi “ricchi” la richiesta del Regno Unito di limitare l’accesso al welfare da parte dei migranti “comunitari”, e alcuni suoi politici conservatori hanno fatto l’inevitabile gara a chi faceva la voce più grossa in tema di welfare quando sono cadute le restrizioni alla libertà di circolazione per bulgari e romeni. Intanto uno dei punti cardine dell’accordo del febbraio scorso tra Cameron e il Consiglio Europeo, fatto proprio per scongiurare la Brexit, era giustappun-to la limitazione dell’accesso al welfare per i migranti “comunitari”, senza che negli altri paesi né la sinistra né gli europeisti avessero molto da ridire. La prima forse per non voler accentuare la discriminazione og-gettiva che si viene a creare rispetto ai migranti “extracomunitari”? I secondi forse perché i termini dell’accordo – esclusione temporanea per un periodo dai quattro ai sette anni, destinata a venir meno gradualmente con l’inclusione nel mercato del lavoro e nel sistema sociale; cessazione degli assegni fami-liari se i minori erano rimasti nel paese di origine – apparivano in fondo accettabili, o addirittura ragionevoli?
In realtà l’idea di una cittadinanza comune europea è sempre stata presente nel discorso d’integrazione europea sin dalle origini. Istituzionalizzata per la prima volta nel Trattato di Maastricht, “perfezionata” nei trattati successivi, sostenuta da alcune sentenze della Corte Europea di Giustizia, specie riguardo al principio di non-discriminazione tra nativi e stranieri “comunitari” e all’ampliamento della gamma dei diritti, la cittadinanza europea sta però attraversando negli ultimi anni una fase di stallo se non regressione, a cui hanno certamente contribuito le limitazioni alla libera circolazione dei migranti provenienti dai paesi dell’ex blocco comunista, che hanno prodotto stratificazioni e gerarchizzazioni tra cittadini europei (e pro-prio alla viglia di quella che voleva essere la Costituzione Europea), con gli “extracomunitari” in fondo a tutti, nonché altre sentenze della stessa Corte Europea di Giustizia che sono andate in senso inverso, vo-lendo da una parte tutelare le prerogative delle imprese, e ostacolare dall’altra l’insediamento degli “ex-tracomunitari” nella UE tramite la cittadinanza europea. Il che è un esempio come quest’ultima non si con-trappone tout court ai diritti di quelli, ma può aprire ad essi altri spazi, perché contesta in prima istanza la contrapposizione tra cittadini (nativi) e stranieri, e stabilisce per questi diritti incondizionati (appunto, la pietra dello scandalo in UK e altrove). Viceversa, nell’Europa neoliberale, che ha tra i suoi principi “costitu-zionali” la competitività non solo tra le imprese, ma anche tra le società e gli stati, e in cui non solo la pro-pria posizione sociale, ma la stessa fruizione dei diritti diventa sempre più condizionata dalla performativi-tà economica, l’appartenenza a un determinato stato nazionale conta sempre nei destini individuali, no-nostante le retoriche della globalizzazione, della presunta caduta di muri e confini (ormai logora come retorica anche nella UE), e persino dell’integrazione europea. Non stupisce allora la vituperata “rinascita dei nazionalismi”: se restiamo comunque incasellati nel nostro stato nazionale al quale vengono sottratte ri-sorse senza che noi possiamo fare nulla, tanto vale votare per quei partiti che ti prospettano maggiori risorse per la nostra casellina…
In altri termini: ogni discorso europeista che prescinde dalla priorità di consolidare e ampliare uguali diritti di cittadinanza europea, di costruire legami di solidarietà transnazionali, di creare cioè una “casa comune europea” nelle diritti e nelle condizioni sociali, è destinato a restare vaniloquio, perché senza questa tensione (il community building di cui si diceva sopra) vengono riprodotte le stesse divisioni nazionali, attizzati gli stessi nazionalismi che si dice di voler combattere.
È questa UE in grado di far sua questa priorità per effettuare quel salto verso una democrazia europea e un assetto federale che molti dicono di auspicare? Sono diverse ormai le voci tutt’altro che euroscettiche che sottolineano l’afasia delle istituzioni europee nei confronti dei problemi dei cittadini e l’incapacità strutturale della UE di riformarsi in senso democratico, che denunciano la sua regressione in «mentalità e pratiche autoritarie», e che invitano ad andare oltre le strutture della UE – evocando ad esempio una “re-pubblica europea”. Non c’è qui lo spazio per discutere in dettaglio tali analisi; qui si vuole solo aggiungere un paio di altri elementi che bloccano lo sviluppo della UE in senso democratico: innanzitutto il suo “nazio-nalismo metodologico” strutturale, che, assommandosi al principio della competitività si cui si è detto so-pra, vede i cittadini in primo luogo come membri di uno specifico stato nazionale, vede la formazione della volontà politica in direzione solo top-down tramite le élites nazionali, impedisce non solo la formazione di solidarietà transnazionali e di una cittadinanza europea inclusiva, ma anche di una democrazia europea di per sé, e proprio a seguito del referendum su Brexit rivela tutta la sua inadeguatezza. E non sarebbe que-sto un ostacolo insormontabile, se non si aggiungesse la mancanza di finalità “ultime” comuni tra i dirigenti europei. Non che prima ci fossero state, nemmeno ai tempi della creazione della formula «un’unione sempre più stretta», che era essa stessa frutto di un compromesso. Nel corso degli anni si sono però mol-tiplicati gli interessi, le istanze, gli obiettivi, i significati, le convenienze, i discorsi attorno alla UE che si sono incontrati al minimo comune denominatore, spesso sotto la spinta dell’emergenza, badando a conservare equilibri consolidati e a salvaguardare poteri e interessi “forti”, e risultando inevitabilmente, mano a mano che si procedeva nell’integrazione, in un restringimento delle scelte possibili a livello nazionale o locale senza compensi a livello europeo. L’UE si configura ora come un accrocchio di esecutivi e di poteri opachi senza un locus dove sia resa visibile l’espressione della volontà e della sovranità popolare. Purtroppo l’integrazione europea non procede per un piano inclinato e può ben darsi che la situazione adesso sia più difficile di quando si era cominciato sessantacinque anni fa.
Basti pensare all’impasse che si è venuta a creare nelle istituzioni europee a seguito del referendum Brexit. Da una parte i presidenti della Commissione Juncker e del Parlamento Europeo Schulz, favorevoli a un approfondimento dell’integrazione europea, che premono per una rapida uscita del Regno Unito dalla UE; dall’altra alcuni membri del Consiglio Europeo, favorevoli a un approccio intergovernativo, premono per un trattamento più soft, non senza eventuali trattative. In mezzo il popolo europeo in UK, quello che si è recentemente mobilitato in grandi manifestazioni di piazza per l’Europa mai viste prima (e che invero sarebbe stato meglio si fossero tenute prima), la maggioranza degli scozzesi e dei nordirlandesi, la mino-ranza degli inglesi e dei gallesi, i tre milioni di migranti UE il cui destino si giocherà ora nelle trattative, più magari qualche “extracomunitario” che preferisce comunque essere straniero in un contesto UE che nel contesto di uno stato solo – tutti quei cittadini per conto dei quali, come è stato scritto, nessuno parla. In mezzo tra due fuochi. Da una parte la chiusura nei confronti del Regno Unito, se intende giustamente a impedire l’acquisizione di posizioni di privilegio o di vantaggio indebito, rischia di apparire un’imposizione di disagi per l’esito del voto, una rappresaglia per la mancata acquiescenza, che sempre più appare come l’unica risposta che si vuole dai cittadini, e non contribuisce certo alla popolarità della UE. Dall’altra parte l’affermazione dell’Europa intergovernativa distruggerà per prima cosa proprio il concetto di cittadinanza europea, per imporre poi in alcuni progetti la tirannia di una governance postdemocratica. Occorre trovare gli spazi politici per valorizzare la cittadinanza europea e affermare il progetto europeo al di là dei confini. In fondo è solo così che l’integrazione europea potrà uscire da quest’impasse e progredire.