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Renzi, Hollande e Juncker abbracciati e di spalle

(*) Provo un senso di amarezza di fronte alle immagini di un Renzi irritato e bellicoso dopo il frustrante vertice di Bratislava, preceduto dal discorso senza più energia di un Jean-Claude Juncker che appare molto più vecchio dei suoi 60 anni, e quello pericoloso del polacco Donald Tusk, che, in linea con la volontà dei paesi dell’Est e della destra, comincia a porsi in diretta rotta di collisione con le istituzioni europee, che devono, secondo lui, meramente “sostenere” le decisioni (quali poi?) dei governi nazionali.

Dicono che Donald Tusk, il Presidente del Consiglio Europeo, facesse jogging in una strada chic di Bruxelles mentre Juncker parlava, scortesia impensabile fino a poco tempo fa; segnale chiaro dello stato delle relazioni fra la Commissione e il Consiglio; e della serietà dell’attacco che é portato alla dimensione comunitaria dell’UE, rispetto allo strapotere di governi nazionali dalle agende sempre più lontane e che rischiano di diventare inconciliabili; ha perfettamente ragione Renzi a considerare che nelle conclusioni del vertice su migrazioni e economia non c’é una ambizione di avere una“politica” comune, ma solo qualche frase a effetto per cercare di maramaldeggiare con le destre dei rispettivi paesi, come se fosse sufficiente promettere frontiere, controlli, sicurezze, addirittura soldati per affrontare una sfida che non puo’ che avere anche una dimensione di solidarietà, politiche di integrazione, di organizzazione dell’accoglienza per essere davvero governata. Pero’ é anche vero che alla fine, come fa notare un commentatore del vertice, ha anche lui approvato le Conclusioni, come peraltro l’Italia ha approvato Fiscal Compact e tutti gli altri strumenti della camicia di forza dell’austerity.
Ma la ragione principale della mia amarezza é che con questa “scenata” di Renzi arriva forse fuori tempo massimo rispetto alla possibilità di avere un fronte pro-europeo, anti-austerità e “accogliente” in materia di immigrazione alternativo alle “truppe” nazionaliste e populiste, che non coinvolgono ormai anche il “main-stream” politico e mediatico in molti paesi UE.
Oggi sembra che la gita a Ventotene sia stata davvero, come molti avevano detto, solo un giorno di memoria e omaggio, ma non di reale convergenza su una visione di Europa. Ripenso spesso a quella frase di Brecht, “prima vennero a prendere gli zingari, ma non me ne curai perché non ero zingaro….” Che si potrebbe adattare con “prima vennero a prendere i Greci e non me ne curai…”. La storia non si fa con i se e con i ma. Ma se a gennaio del 2015, dopo l’arrivo di Tsipras al governo e durante tutti quei tremendi mesi l’Italia avesse accolto l’offerta di Tsipras e Varoufakis (si anche lui) di lanciare una sfida politica e non contabile al folle dogma dell’austerità “uber alles”, forse non saremmo a questo punto. La mancata solidarietà con la Grecia, la spinta di Tsipras sull’orlo del baratro per poi riprenderlo per i capelli all’ultimo secondo con quell’altro genio di Hollande, la scandalosa e permanente umiliazione dei greci é stata una spinta potente anche alla Brexit e alla crescita dei partiti nazionalisti in questo anno. Perché quell’Europa, quella che schiaccia e umilia in economia, e non sa ritrovare uno stimolo serio alla crescita sostenibile, che apre con il contagocce i lucchetti del rigore per gli investimenti produttivi che servono a rilanciare economia e occupazione, si combina alla perfezione con quella che respinge e umilia i migranti e i rifugiati, quella che costruisce muri e non si cura del dolore e della morte di migliaia di persone, (anche se su questo la Commissione di Juncker ha tentato, anche qui troppo tardi, una strada diversa). Un’Europa che é facile da rifiutare, e purtroppo non più solo a livello delle politiche, ma anche su quello dei valori, se é vero che parlare di solidarietà, di unità, di diritti e opporsi ai muri pare ormai totalmente fuori moda.
Eppure, ora forse anche Renzi si é reso conto che la partita non é solo intorno a un po’ di flessibilità per vincere il referendum o restare al potere. Lo sfaldamento possible della UE ci mette di fronte alla sfida storica di organizzare una vera battaglia per salvarla e per salvare anche politiche che abbiamo sempre difeso e che abbiamo sempre pensato dovessero andare oltre le frontiere nazionali, dalla solidarietà, alla pace, al semplice valore del vivere insieme e dell’equa distribuzione della ricchezza e delle risorse, all’ambiente, a una presenza utile e pacifica sullo scenario internazionale. Si illude chi pensa che la rottura del progetto europeo sarebbe senza rischi per la pace interna e la qualità della nostra vita e determinerebbe la salutare vittoria del “popolo” contro i terribili e grigi liberisti di Bruxelles: basta guardare all’inestricabile imbroglio nel quale si sono messi i britannici con Brexit, agli episodi di violenza e intolleranza che si sono susseguiti contro cittadini europei dopo il referendum, ma anche in tanti stati UE compreso il nostro; alla guerra fiscale tra gli stati membri resa evidente dall’affare Apple, dove siamo arrivati all’assurdo del governo irlandese che decide di ricorrere contro la decisione della UE che gli da il diritto di incassare 13 miliardi di euro, per paura di perdere il vantaggio di essere un paradiso per multinazionali che eludono le tasse; al brutto ghigno di Orban e Kaczynski che annunciano una “contro-rivoluzione” finalizzata, con i loro soci della repubblica ceca e della Slovacchia, a smantellare lo spazio giuridico europeo, rinazionalizzare poteri e tenersi ovviamente i soldi dei fondi strutturali, decidendo come pare a loro come spenderli e a farsi un baffo dei loro doveri in materia di libertà di stampa o di espressione: la fine dell’UE prefigura conflitti, che nessuno di noi avrebbe mai pensato di dover rivivere. Non si tratta di un allarmismo eccessivo. La storia europea anche recente ci dice che i venti di guerra possono tornare in ogni momento.

Quindi che fare? Primo, non darsi per vinti. Secondo, costruire alleanze, visibili alternative e rumorose. Sbagliano sia Juncker che Renzi a rimanere nella battaglia navale del rapporto di forza tra stati; a non valorizzare, dare visibilità e protagonismo anche a quella parte importante dell’opinione pubblica che urla meno di Salvini, ma vuole che l’Europa non perda la sua anima; ai tanti cittadini attivi e solidali in Europa, ai consumatori, alle città che organizzano l’accoglienza e nuovi modi di vivere, spesso a dispetto dei loro stati, nelle associazioni e nei partiti che si battono per i diritti e per un mondo e un’economia “diversi”, nei parlamenti, che Laura Boldrini ha meritoriamente cercato di unire intorno a una bella dichiarazione dove al centro c’é l’idea della necessità di una sovranità democraticamente condivisa e che ora bisogna riprendere; o nel Parlamento europeo, che a dispetto del suo presidente megalomane e fastidioso e delle maggioranze certo non rivoluzionarie, rimane il luogo della rappresentanza senza frontiere dei cittadini europei e che entrambi, Juncker e Renzi, continuano a snobbare.

Nonostante gli urli di chi raccoglie consenso con ricette disastrose come l’uscita dalla UE, dall’euro o la cacciata dei migranti, in realtà non ci sono soluzioni facili e immediate né alternative positive all’integrazione europea: siamo troppo piccoli, deboli, interdipendenti per smontare tutto e tornare alla situazione anteguerra. E perché riunciare al sogno di un mondo pacifico e migliore per chiuderci in piccole patrie omogenee, razziste e ostili? La priorità é cambiare la politica economica verso innovazione e sostenibilità, uscire dall’austerità e ribaltare con la forza dei fatti il discorso nazionalista e razzista che vorrebbe farci credere che chiudendo le frontiere e cacciando i migranti torneremmo a una specie di Bengodi armoniosa. La sconfitta del TTIP, il caso APPLE, l’accordo di Parigi, i tanti governi innovativi nelle città d’Europa, la resistenza contro il razzismo e perfino la mobilitazione del dopo terremoto dimostrano che non tutto é perduto, neanche per l’Europa.
Ci aspettano mesi difficili, ma tutto é possibile. La prossima tappa importante in questa partita sempre più confusa dell’UE del dopo Brexit sarà marzo, l’occasione della celebrazione a Roma dei 60 anni dalla fondazione della Comunità europea. Il Movimento europeo e innumerevoli associazioni stanno organizzando una mobilitazione europea che puo’ e deve essere massiccia, perché quel compleanno non puo’ solo essere una celebrazione di una pace lunga 60 anni. E poi, qualsiasi sia la decisione del governo britannico di sbloccare o no l’art.50, ci sarà la durissima partita della revisione delle prospettive finanziarie e del bilancio comunitario previsto per il 2017 e la partita ancora più importante delle elezioni europee del 2019. Nessuno di noi puo’ restare a guardare.

Alex Langer diceva che l’Europa stava morendo a Sarajevo. Abbiamo ormai pochissimo tempo per salvarla.

 

(*) articolo già pubblicato su http://www.huffingtonpost.it/monica-frassoni/renzi-juncker-europa-_b_12069714.html

Autore
Monica Frassoni
Author: Monica Frassoni
Bio
Monica Frassoni è Co-Presidente del Partito Verde Europeo dal 2009. Laureata in scienze politiche, nel 1987 è stata eletta segretario generale della JEF (Jeunes Européens Fédéralistes - Giovani Federalisti Europei). Dal 1990 al giugno 1999 ha lavorato al Gruppo dei Verdi al Parlamento europeo, avendo Adelaide Aglietta e Alex Langer come punti di riferimento politico principali. Nel 1999 è stata eletta eurodeputata nelle liste dei verdi francofoni belgi Ecolo, prima italiana eletta all’estero. Nel 2004 è stata riconfermata al Parlamento europeo per i Verdi italiani. Dal 2002 al 2009, è stata Co-presidente del gruppo dei Verdi con Daniel Cohn-Bendit.
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