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Europa in Movimento

| Verso un'Europa federale e solidale

Alcune coincidenze meritano di essere ricordate per il loro valore simbolico. Nel dicembre del 1991, mentre nella foresta di Belovezh, vicino a Minsk, i presidenti delle tre repubbliche della Russia, dell’Ucraina e della Bielorussia decretavano la dissoluzione dell’URSS, a Maastricht iniziava il Consiglio europeo che avrebbe approvato il Trattato di Unione europea. In apparenza si tratta di due decisioni opposte, una per la divisione e l’altra per l’unità. Tuttavia, esse sono state originate da un medesimo sisma tettonico. I sommovimenti della storia sono lenti a manifestarsi in superficie.

Potrebbe accadere che le forze che hanno travolto l’Unione Sovietica minaccino l’Unione europea oggi. In sostanza, vorrei qui sostenere che la rinascita del nazionalismo, che si è accompagnata alla rivolta contro il comunismo, ha avuto una parte rilevante nel processo di disgregazione dell’Unione Sovietica e che l’Unione europea rischia di subire la medesima sorte se non avrà la forza di reagire.

La disgregazione degli stati e delle unioni di stati coglie di sorpresa solo chi non sa scorgere le forze profonde che ne minano l’esistenza. L’Unione europea è già entrata in una fase pericolosa, che potrebbe degenerare. La crisi finanziaria internazionale del 2008 è stata affrontata con provvedimenti posticci e inadeguati, che hanno provocato continue tensioni tra i paesi membri e alla fine uno scontro frontale tra debitori e creditori. Il Presidente della Commissione, Juncker, ha ammesso che, durante la crisi greca, “l’Europa è stata molto vicina all’abisso ed è stato solo quando ci siamo trovati sull’orlo del precipizio che siamo riusciti a fare marcia indietro.” L’alto rappresentante per la politica estera, Mogherini, ha affermato che “il rischio di disintegrazione esiste. E’ un rischio che si è manifestato con la Grecia. Sono convinta che la Grexit avrebbe segnato l’inizio della fine del progetto europeo.” Questo pericolo mortale non ha tuttavia convinto i leader europei a cambiare rotta. Le attuali divergenze sulla politica dell’immigrazione, con la frattura tra chi preme per la conservazione e il rafforzamento di Schengen e chi vuole tornare alle frontiere nazionali, lo dimostrano. La minaccia di una Brexit, è un’altra spada di Damocle sulla sopravvivenza dell’Unione. E’ inoltre evidente l’incapacità dell’Unione di affrontare le sfide di politica estera: l’allargamento a Est della NATO ha provocato l’inevitabile reazione della Russia e la crisi dell’Ucraina; la disattenzione dell’Unione verso il Mediterraneo e l’Africa, ha generato un vuoto di potere nel Medio Oriente che è stato sfruttato abilmente da gruppi terroristici pseudo-islamici per la creazione di uno stato terrorista.

L’insicurezza generata dalla mancanza di politiche europee efficaci si traduce in una sfiducia crescente dei cittadini verso i tradizionali partiti europeistici, che perdono consenso nei confronti delle forze populiste e nazionaliste. Il linguaggio utilizzato dal Ministro della giustizia polacco, Zbigniew Ziobro, verso la Commissione europea che aveva osato criticare le recenti riforme della Corte costituzionale polacca, è rivelatore della degenerazione dei rapporti interni all’Unione. “Siamo uno stato sovrano – ha affermato Ziobro – non penso che un corpo estraneo ci possa imporre qualcosa, perché ciò confliggerebbe con il nostro sentimento di orgoglio nazionale.” Se la Commissione europea è un corpo estraneo, perché la Polonia continua a far parte dell’UE? Un’atmosfera altrettanto nazionalistica si respira in Ungheria, nella Repubblica Ceca, in Olanda, in Francia, in Danimarca, in Finlandia e, sebbene in termini diversi, in Gran Bretagna, in Italia e in Grecia.

Naturalmente vi sono anche forze politiche che lavorano al rilancio del processo di unificazione. Tuttavia, quasi tutte aspettano il fatidico 2017, quando si terranno le elezioni francesi e tedesche. A quel punto, si spera in un netto cambiamento di rotta; ma sarà così? Il 18 dicembre, Juncker ha dichiarato: “Per il 2016 non mi faccio nessuna illusione, assomiglierà come una goccia d’acqua al 2015, le crisi che ci sono resteranno e altre ne verranno.” Non si può dunque sottovalutare il pericolo che il Front National francese vinca le elezioni presidenziali. Al momento, tutti sperano che i socialisti o i repubblicani guadagnino consensi e voti sufficienti. Tuttavia, se i governi nazionali europei continueranno, con le loro divisioni, ad alimentare il malcontento popolare, è possibile che Marine Le Pen diventi il prossimo presidente francese e che mantenga quello che ha promesso: far uscire la Francia dall’Unione Europea. L’art. 50 (sul diritto di recesso) del Trattato di Lisbona le apre una strada in discesa. A questo punto, in Germania, le forze dell’economia e della finanza, sostenute da chi è favorevole a una guida tedesca dell’Unione, potrebbero prendere il sopravvento imponendo la creazione del “nucleo duro” (Kerneuropa), tanto auspicato dalla Bundesbank e dal Ministro del Tesoro Schäuble: un’area dell’euro dei paesi virtuosi, quelli che durante la crisi del debito pubblico venivano classificati come “paesi in surplus”, in grado di adottare il modello di sviluppo tedesco. I paesi mediterranei sarebbero lasciati al loro destino. In fondo, sono stati avvisati più volte che i loro deficit di bilancio e i loro debiti eccessivi non sono compatibili con una “sana” unione monetaria. Così, anche senza disfare le istituzioni europee, l’Unione e l’intero continente si avvierebbero verso un destino certamente non immaginato e non voluto dai padri fondatori.

Due sono le tendenze della politica mondiale che stanno conducendo l’Unione verso il baratro. La Perestrojka di Gorbaciov includeva un cruciale aspetto internazionale: il disarmo nucleare e convenzionale tra USA e URSS e la costruzione di un ordine pacifico mondiale mediante una riforma radicale dell’ONU. Per quanto riguarda i suoi aspetti interni, il processo di democratizzazione del comunismo promosso da Gorbaciov è grosso modo riuscito (sebbene la democrazia in Russia e nelle altre ex-repubbliche sovietiche sia claudicante), mentre è fallito il piano di tenere unita l’Unione sovietica, mediante la sua trasformazione in una federazione. Resta il fatto che il crollo dell’URSS e del suo impero europeo ha generato un’ondata nazionalistica pericolosa per l’Europa e per il mondo.

In Europa, il barbaro nazionalismo etnico nella ex-Jugoslavia ha generato un’infinità di lutti e distruzioni. L’allargamento dell’Unione ha solo attutito il processo di nazionalizzazione della politica. I paesi dell’Est europeo non sono certamente entrati nell’Unione per costruire la federazione europea: i loro interessi primari sono stati la sicurezza militare, garantita dalla NATO, e la conversione al capitalismo delle loro economie inefficienti. Una volta dissolta l’ubriacatura ideologica iniziale, dopo la caduta del Muro di Berlino – che alcuni hanno salutato come l’alba di una nuova era di pace e di prosperità, sotto l’ala protettrice statunitense – la realtà si è mostrata molto differente. Oggi assistiamo al declino della ex-superpotenza occidentale, alla rinascita della competizione tra “grandi potenze” nella politica mondiale e al disorientamento dei leader mondiali nei confronti delle più drammatiche emergenze globali, come l’incombente disastro ecologico e ambientale. Si invoca a gran voce la cooperazione internazionale, tutti fingono di adeguarsi a questo imperativo morale, le popolazioni si tranquillizzano, ma poi gli interessi economici e corporativi impongono miopi scelte nazionalistiche. Chi propone di riformare l’ONU, per garantirle poteri sufficienti per la difesa dei diritti umani fondamentali, per la pace e lo sviluppo sostenibile dell’umanità, rischia la derisione.

La seconda tendenza, che si combina pericolosamente con la prima, è la globalizzazione. Il processo di globalizzazione comporta aspetti positivi, se ben governato, poiché integra popoli nazionali in una comune civiltà cosmopolitica, ma anche aspetti negativi se l’interdipendenza tra popoli crea tensioni e chiusure. Il moderno nazionalismo, a differenza di quello ottocentesco, è particolarmente insidioso, perché favorisce maggiormente la disgregazione piuttosto che l’integrazione tra i popoli. Nella fase ottocentesca d’industrializzazione, il nazionalismo ha favorito non solo l’integrazione tra i cittadini nazionali e la democrazia, ma anche le unificazioni di stati, com’è avvenuto per l’Italia e la Germania. Oggi, il nazionalismo etnico è facilmente sfruttato da gruppi di potere per dividere gli stati, fomentando l’odio e il terrorismo.

Le grandi potenze mondiali – gli Stati Uniti, la Russia, la Cina, l’India, il Brasile – hanno naturalmente un forte interesse a promuovere e sostenere il processo di globalizzazione. Ad esempio, Putin, il diretto successore del nazional-populista Yeltsin, tenta di ricostruire, con il progetto di Unione Eurasiatica, quello che Yeltsin ha distrutto. La Cina ha risposto alla Trans-Pacific Partnership degli USA con l’ambizioso progetto d’investimenti della “Via della seta,” per unire l’Europa con l’Asia. Tuttavia, le stesse potenze mondiali non hanno poi armi ideologiche sufficienti per contrastare le forze protezionistiche interne danneggiate dall’apertura al mercato mondiale e quelle che insidiano l’unità dello stato. Avviene così che, negli Stati Uniti, un candidato alla presidenza guadagni consensi proponendo la chiusura delle frontiere all’immigrazione di cittadini di fede islamica e muri protettivi contro l’invasione dal Sud-America.

In Europa, la stessa tendenza si manifesta non solo nei partiti che chiedono la protezione nazionale, ma anche tra le popolazioni delle regioni più ricche – come la Catalogna, le Fiandre, la Scozia – favorevoli alla secessione. Il dogma del principio di autodeterminazione nazionale viene fatto valere dalle comunità più piccole, come le città-stato. Questo tipo di egoismo nazional-etnico è difficile da contrastare, perché la globalizzazione mal governata genera una caotica, e spesso iniqua, distribuzione delle risorse economiche mondiali. Tuttavia, il rimedio non è quello di innalzare barriere protettive – come purtroppo propongono anche alcuni premi Nobel come Krugman e Stiglitz – ma quello di promuovere una seria riforma delle istituzioni internazionali: un’unione monetaria ed economica mondiale, che abbia come obiettivi prioritari lo sviluppo sostenibile e la lotta alla povertà.

Può l’Unione europea invertire la rotta verso la sua disgregazione? La risposta è Sì, a patto che chi ha il potere di farlo non aspetti il 2017 passivamente: potrebbe essere troppo tardi. I partiti contrari alla riforma federale dell’Unione potrebbero rafforzarsi e imporre il primato dell’asse Consiglio-Commissione a discapito dell’asse Commissione-Parlamento europeo, il fulcro sul quale si può innescare una genuina democrazia europea. In ultima istanza, una riforma democratica dell’Unione richiede l’approvazione di una costituzione federale, per separare definitivamente il destino dell’Unione dalle scelte dei governi nazionali. Occorre impedire che un solo governo nazionale possa provocare la dissoluzione dell’Unione. Il fatto che oggi tutti si aspettino dal 2017 il miracolo riformatore è il sintomo della passiva accettazione della supremazia nazionale sul destino dell’Unione. I detentori del potere di riformare l’Unione – Commissione e Parlamento europeo in primo luogo – devono trovare il coraggio di uscire allo scoperto, per convincere i cittadini che la condivisione della sovranità nazionale al livello europeo, per alcune funzioni cruciali come la fiscalità e la sicurezza, è il solo modo per riconsegnare ai cittadini il loro potere “sovrano” di decidere il proprio futuro, in Europa e nel mondo. La costruzione di un governo democratico europeo è impossibile senza l’attivo coinvolgimento dei cittadini.

La lotta per la costruzione di un’Europa democratica ha un rilevante aspetto culturale, che potrà manifestarsi compiutamente solo nel lungo periodo. I leader favorevoli alla federazione europea dovranno convincere i membri e i simpatizzanti dei loro partiti che il progetto europeo richiede il superamento della vecchia ideologia internazionalistica che imprigiona il pensiero politico liberale, socialista e democratico entro i soffocanti confini nazionali. La guerra fredda è fortunatamente finita; ma la guerra fredda è stata anche combattuta, nonostante le molte ipocrisie delle superpotenze, in nome di ideali politici universali, per difendere ad affermare la democrazia e il socialismo su scala mondiale. Oggi quasi nessuno si fa promotore di un pensiero politico e di un progetto capaci di indicare, al di là delle divisioni nazionali, le prime forme embrionali di governo delle grandi emergenze mondiali. L’ordine della guerra fredda si è trasformato in disordine e nessuno propone un’alternativa. L’Unione europea riuscirà a trasformarsi in una federazione sovranazionale se i suoi sostenitori riusciranno a mostrare che i valori costitutivi della civiltà – di una civiltà cosmopolitica, non del solo Occidente – possono unire tutti i popoli e i cittadini del mondo, oggi vittime di un ordine mondiale ingiusto e violento.

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