Dall'inizio del 2016, il primo canale della radio di Stato polacca trasmette l'inno alla gioia della nona di Beethoven in alternanza con quello nazionale: prova così ad attirare l'attenzione sul pluralismo e la libertà di espressione minacciati dalla nuova legge sui media pubblici.
Questa legge prevede che i membri delle direzioni e dei consigli di amministrazione delle radio e tv pubbliche siano sospesi immediatamente dai loro incarichi. Le nuove nomine (e anche le rimozioni) saranno di competenza diretta del ministro del Tesoro, non più di un Consiglio ad hoc come avviene ora nel Paese. Prima di iniziare i brindisi al nuovo anno, il 31 dicembre 2015, il Parlamento ha detto il suo sì alla proposta di legge. Camera bassa e Senato sono entrambi dominati dal partito “Diritto e giustizia” (PiS), guidato dall'ex primo ministro Jaroslaw Kaczynski: il 25 ottobre la formazione conservatrice e xenofoba ha avuto la maggioranza assoluta in Parlamento. Il presidente Andrzej Duda, anche lui del PiS, eletto lo scorso maggio, il 7 gennaio 2016 ha dato il via libera alla riforma.
Preso a pochi mesi dalla vittoria elettorale, questo non è il primo provvedimento che fa vacillare lo stato di diritto in Polonia. Già a dicembre la presentazione di un disegno di legge che modifica il funzionamento e le competenze della Corte costituzionale aveva portato migliaia di persone in piazza. Anche contro la riforma dei media si è sollevata l'opposizione, che ha denunciato la legge come tentativo del governo di prendere il controllo dei mezzi di informazione; i direttori dei principali canali della tv pubblica si sono dimessi per protesta. Quello della Polonia è un percorso che si annuncia pericoloso: tra qualche mese sarà modificato anche lo status legale dei media che da “pubblici” diventeranno “nazionali” e avranno un nuovo sistema di finanziamento.
Il commissario europeo all'Agenda digitale Gunter Ottinger ha subito condannato il provvedimento e messo sotto sorveglianza la Polonia. “Il direttore di una radio o una tv pubblica non può essere licenziato così, in modo arbitrario”, ha detto Ottinger. A essere violata è la libertà di espressione riconosciuta, oltre che nelle carte costituzionali degli Stati membri, nell'art.11 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea.
Ma cosa può fare l'Ue quando è messa a rischio una delle libertà da lei riconosciute? C'è un articolo, il 7 del Trattato Ue: una procedura, che può essere avviata anche dal Parlamento europeo, volta a verificare se esista un rischio evidente di violazione grave dei valori fondanti dell’Ue da parte di uno Stato membro e, in caso affermativo, a permettere al Consiglio di indirizzare raccomandazioni formali al Paese. Sanzioni pesanti, come la sospensione del diritto di voto in Consiglio, possono toccare al Paese al termine della procedura. L'articolo 7 vede l'Unione come una famiglia, dove se uno fa cose brutte, gli altri lo rimproverano. In materia economica e monetaria questo avviene senza troppi drammi. Ma qui sì: l'articolo non è mai stato usato, troppo pesante per ricorrervi, secondo le deboli istituzioni europee. D'altronde, come può un'organizzazione dominata dal volere degli Stati permettersi di mettere in causa la legittimità dell'azione di un governo democraticamente eletto?
Riguardo la situazione polacca, il portavoce della Commissione Margaritis Schinas ha ricordato che esiste un nuovo quadro per affrontare le minacce sistematiche allo stato di diritto negli Stati membri. Approntato a marzo 2014, trasformato a dicembre 2015 in un semplice dialogo strutturato, il sistema vuole dare un altro strumento per contrastare possibili violazioni della legalità che non sia la risposta massiccia dell'articolo 7. In pratica, succede che l'Ue avvia il dialogo con il Paese in questione per evitare l'aumento delle minacce.
Perciò, adesso, con i polacchi, parliamo. Il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker ha promosso un primo dibattito sullo stato di diritto in Polonia il 13 gennaio: qui verrà esaminata la legge sui media. Poi, il Parlamento discuterà il caso il 19 gennaio. Se la Polonia non dovesse tenere conto delle modifiche al testo proposte da Bruxelles, l'Ue potrebbe avviare la procedura dell'articolo 7. Ma non lo farà. O almeno, Juncker ha dichiarato che vede la cosa poco probabile.
Non lo ha mai fatto neanche nei confronti dell’Ungheria, governata dal 2010 dal nazionalista Viktor Orban. Nel 2011 venne approvata una riforma dei media molto pesante per la libertà di informazione: fra le misure previste, la soppressione delle redazioni di giornali e radio in modo da concentrare l’informazione su un’agenzia di stampa unica, finanziata dallo Stato. Uno dei primi atti preoccupanti di Orban, seguito, in un crescendo, da provvedimenti come la riforma della Costituzione e di recente la costruzione del muro per respingere i profughi al confine con la Serbia. In risposta, l'Unione ha, in molti casi, evidenziato l'incompatibilità fra il suo diritto e le riforme di Orban e, in alcuni, iniziato la procedura di infrazione. Niente articolo 7, dunque: per l'Ungheria si è scelta una via diversa, più giuridica - tecnica che politica.
Più forte fu la reazione europea quando in Austria si insediò un governo appoggiato da Jorg Haider, accusato di antisemitismo e neonazismo. Era il febbraio 2000. Gli altri 14 Paesi dell’Ue adottarono subito sanzioni, come la rinuncia ai contatti ufficiali bilaterali a livello politico con il governo austriaco. Le sanzioni però non furono una misura dell'Ue ma una reazione comune degli Stati membri. Ad ottobre dello stesso anno, il rapporto dei Saggi revocò le sanzioni e mise fine alla questione Haider.
Di fronte a queste diverse ma frequenti situazioni, ci si rende conto che, seppur con le difficoltà del caso, un'agenzia indipendente che accerti le violazioni dei valori dell'Unione, consentendo poi alle istituzioni di adottare le sanzioni, può essere un metodo efficace per affrontare il problema.
Flashmob con l'inno europeo, Torun, Polonia, 19 dicembre 2015