Parlando di Regno Unito e di Brexit è facile cadere in quel paradigma “nazionalista” (amorosamente coltivato dalle stesse élites britanniche nei confronti dell’Europa) che ci fa vedere nei governi nazionali l’incarnazione univoca della volontà popolare, senza contrasti o contraddizioni. È facile vedere solo l’euroscetticismo neoliberista della destra britannica, più sguaiato nella versione di Nigel Farage, più pensoso nella versione del premier David Cameron (con cui il nostro Presidente del Consiglio riesce a trovare più di qualche intesa), o le ambiguità dell’europeismo in versione Blair, o il nazionalismo insulare di tanta sinistra britannica. Tuttavia qualcosa di nuovo che sfugge ai radar mainstream c’è anche lì. Un “altereuropeismo” certamente minoritario, ma che esprime una voce diversa in un dibattito sempre asfitticamente incentrato su “dove stanno gli interessi britannici”.
Un “altereuropeismo” con cui occorre relazionarsi, invece di indulgere in fantasie “pro-Brexit” nell’illusione che liberandosi della zavorra rappresentata dallo UK l’Unione Europea sarebbe finalmente libera perseguire le sue magnifiche sorti e progressive. Ne parliamo con uno dei suoi esponenti, Andrea Pisauro.
Andrea è di Roma, dove si è laureato in Fisica, e ha recentemente conseguito un dottorato in neuroscienze allo University College of London. Lavora attualmente all’Università di Glasgow, dove è ricercatore in Neuroeconomia. È coordinatore del Circolo “Radio Londra” di SEL UK ed è stato candidato alla Camera nel 2013 per la Circoscrizione Estero. Attualmente è impegnato nella campagna “Another Europe is possible”, contro l’uscita del Regno Unito dalla UE, e al tempo stesso per una trasformazione radicale delle istituzioni europee in senso democratico e sociale. Un testo chiave di questa campagna è l’articolo di Luke Cooper intitolato EU debate: We need to stay in Europe to change Europe, che è stato pubblicato sulla rivista “Red Pepper”; notevole anche il video “The Choice”, dove compare pure Andrea.
1) Andrea, la campagna di “Another Europe is possible” è appena agli inizi. Che impressioni hai in prospettiva del suo andamento?
La campagna sta crescendo ed ha un notevole potenziale. Guarda a quella fascia di elettorato che rimane insensibile agli argomenti della retorica europeista “ufficiale”, tutta incentrata sulla difesa degli interessi della grande impresa e del “business”. Un europeismo radicale e idealista è infatti indispensabile per parlare ai tanti che, anche in UK, guardano con sgomento all’Europa dell’austerity e alla perversa governance dell’Eurozona che ha umiliato la Grecia nella scorsa estate. C’è anche qui una vasta fetta di società che è arcistufa della ricette e retorica neoliberiste, si riconosce nella leadership di Jeremy Corbyn e guarda con speranza all’“altra Europa” di Syriza e Podemos come antidoto al populismo della destra xenofoba.
Si tratta peraltro di un ribaltamento della posizione storica della sinistra radicale britannica: nel precedente referendum del 1975 il Labour si spaccò e la sinistra interna votò contro l’adesione alla Comunità Europea. Un cambiamento che ricalca un atteggiamento molto più favorevole all’Europa delle nuove generazioni in prospettiva molto importante per superare lo storico isolazionismo britannico, che ha oggettivamente favorito la deriva germano-centrica della UE.
2) Qual è lo stato attuale del dibattito sul referendum in UK?
Un dibattito noioso o disinformato, per lo più avvitato attorno al tema dell’immigrazione, cavalcato in modo del tutto strumentale dagli euroscettici, che denunciano gli imponenti flussi migratori provenienti dal resto d’Europa tacendo degli enormi benefici che apportano all’economia britannica. Soffiano sul fuoco i tabloid come il Daily Mail e quella parte dei Conservatori più spregiudicata, che pur non avendo ancora preso posizione sul referendum, lancia proposte ridicole e discriminatorie, come quella del ministro dell’interno Theresa May, che vuole cacciare dal Regno gli immigrati extra UE che guadagnano meno di 35 mila sterline l’anno!
Lo UKIP di un indebolito Farage non riesce, paradossalmente, a prendersi il centro della scena, e la campagna ufficiale ha la sua spina dorsale nella potente corrente euroscettica dei Tories e negli appoggi pesanti di una parte della finanza e dell’imprenditoria filoamericane.
Dall’altra parte vi è l’ingessatissima campagna europeista di Britain Stronger in Europe, che inquadra la questione dell’appartenenza all’UE unicamente in termini di benefici pratici, principalmente di natura economica. Una campagna cross-partitica, fondata su un approccio pragmatico che unisce Tories, Libdem e la destra del Labour.
Il Labour ha a sua volta lanciato una campagna ufficiale un po’ sbiadita che tiene conto della diversità di approcci al suo interno. Tuttavia Corbyn ha unito il 90% del partito sulla posizione europeista e ha preso una posizione coraggiosa rispetto alle negoziazioni del governo in un importante discorso al parlamento europeo, schierandosi contro qualunque concessione alle richieste di Cameron che comporti un peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori europei in UK.
3) A che punto è la negoziazione di Cameron? C’è il rischio che alcune sue richieste vengano accolte degradando ulteriormente l’integrazione europea?
Il rischio è quasi una certezza. I leader europei devono assolutamente dare un contentino a Cameron che gli permetta di salvare la faccia in patria e presentarsi al paese come vittorioso nello scontro con Bruxelles, conditio sine qua non per poter chiedere un voto a favore della permanenza.
Tuttavia occorre distinguere tra le richieste di Cameron quelle che sono proposte di facciata e quelle a cui concretamente punta. Di sicuro non può ottenere nulla sulla limitazione alla libera circolazione delle persone né sulla modifica degli enunciati di principio sulla “ever closer union” o sull’euro come moneta ufficiale della UE, che sono manifesti ideologici dell’Unione. Potrebbe invece ottenere significative concessioni sul cosiddetto “freno di emergenza” all’adozione su scala nazionale della legislazione europea, nonché su qualche limitazione di ridotta entità all’accesso ai benefit per i migranti europei. Si tratterebbe comunque di aggiustamenti non di poco conto nella stabilizzazione di una gestione degli affari europei fondata sulla mutua convenienza per i governi, in un’Unione fondata sul mercato unico, dominata dagli egoismi nazionali e governata tramite accordi flessibili dettati dalle contingenze politiche. Una visione dell’Europa peraltro non dissimile da quella di Renzi che declassa la Commissione e i commissari a una casta di burocrati e scarica la Mogherini che non difende “gli interessi italiani”.
Il gamble di Cameron rimane comunque pericolosissimo. Un voto di rottura con l’Europa segnerebbe la fine del suo governo, una quasi sicura scissione del suo partito (al punto dilaniato sulla questione che Cameron ha dovuto concedere libertà di voto ai suoi stessi ministri), e una quasi certa disintegrazione del Regno, con gli scozzesi che prenderebbero la palla al balzo per chiedere un nuovo referendum sull’indipendenza.
4) Chi sono i vostri sostenitori in UK?
Abbiamo il pieno supporto dei Greens, con l’adesione dell’unica deputata Caroline Lucas, ma anche un sostegno importante del Labour. Ha infatti aderito il luogotenente di Corbyn per gli affari economici John McDonnell, e ci sostiene una deputata della sinistra interna molto in vista come Diane Abbott.
Oltre a loro, think tank di area Labour come Compass, associazioni europeiste progressiste come European Alternatives. Abbiamo poi ricevuto supporto informale da molte associazioni federaliste non particolarmente di sinistra ma che comprendono bene la necessità di mobilitare il voto più ideologicamente orientato.
5) Il vostro lavoro è tanto più difficile non solo in quanto la Gran Bretagna è un paese tendenzialmente euroscettico, ma anche, e forse soprattutto, in quanto manca quella tensione europeista a livello di massa, quella convinzione che “insieme in Europa possiamo far meglio”, che nel “Continente” è condivisa in tutti gli strati sociali, in tutte le famiglie politiche, a prescindere dalle critiche all’“Europa reale”, e che costituisce ovviamente anche il fondamento di ogni “altereuropeismo”. In UK, invece, l’europeismo tradizionale è in generale algido, elitario, e perlopiù pro-business. Come vi confrontate con questo stato di cose?
È un euroscetticismo che nasconde una nostalgia imperiale, il cui retaggio si nasconde dietro la retorica del Commonwealth come dimensione di sviluppo. Si tratta, pure al netto di genuine relazioni culturali con paesi affini sul piano della lingua, delle tradizioni e dei sistemi istituzionali (non va dimenticato il ruolo della regina, capo di stato di molti di questi paesi), di un retaggio privo di prospettiva storica, figlio dell’incapacità del conservatorismo inglese di rassegnarsi alla fine dell’era imperiale e coloniale.
Si fa strada tra i giovani un senso di nuova appartenenza alla famiglia europea che trova la sua migliore rappresentazione in quella Londra cosmopolita che è per molti aspetti la vera capitale della UE, la città dove vive il maggior numero di cittadini europei.
Il vero problema è proprio che un’analisi oggettiva e disincantata della crisi di un’Europa che dimentica il sogno di Schengen non spinga il barometro del buonsenso britannico a pendere verso l’abbandono del “Titanic Europa”, ben oltre le ragioni ampiamente superate dell’isolazionismo britannico. I sondaggi parlano di un paese spaccato a metà.
6) Tra le caratteristiche invece del nuovo europeismo in UK spiccano certamente la notevole presenza di migranti e la difesa dei diritti di cittadinanza europea (che a quanto ne so non si riscontrano altrove). Quanto riesce a incidere l’attivismo dei migranti nella percezione dell’Europa da parte dei locali?
L’afflusso massiccio di migranti europei ha senz’altro contribuito a spostare il dibattito sui diritti di cittadinanza, anche in virtù del fatto che la questione è naturalmente politicamente viva in una democrazia transnazionale come quella britannica dove convivono quattro paesi e vengono mantenuti status speciali per cittadini irlandesi e dei paesi del Commonwealth.
La questione del franchise elettorale, ovvero di chi potesse votare al referendum, ha tenuto banco per settimane. Alla fine al referendum potranno votare i cittadini del Commonwealth ma non i cittadini europei, a differenza di quanto avvenne nel referendum sull’indipendenza scozzese. Chiaramente dove ci sono molti migranti come a Londra, attivisti o meno, europei e non, la percezione dell’Europa è più favorevole. L’euroscetticismo e la xenofobia prevalgono in zone periferiche dove l’immigrazione è quasi del tutto assente.
7) Hai da poco iniziato a lavorare a Glasgow. Come appare l’Europa vista dalla Scozia rispetto a Londra?
Appare sicuramente più attraente! La Scozia è aperta e solare, a dispetto del clima, e si sente probabilmente più europea che britannica. Il referendum sulla permanenza nella UE in Scozia sarà un plebiscito per lo STAY. E se l’esito complessivo sarà la rottura, non saranno solo i nazionalisti a spingere per l’indipendenza.
8) Avete contatti con forze politiche o sociali, o movimenti europeisti in Europa?
Supportiamo l’idea di Varoufakis di un movimento pan-europeo per la democratizzazione e socializzazione dell’Unione e stiamo seguendone gli sviluppi mantenendo contatti con l’organizzazione.
9) Come vorresti che vi sostenessimo dal resto d’Europa?
Sarebbe bello riempire di calore la campagna europeista, fare sentire la vicinanza dei popoli degli altri paesi e la tristezza al pensiero di una “scissione” che indebolirebbe tutto il progetto europeo, forse in modo irreversibile. Raccontate perché without Britain there is no Europe.
Il referendum sul Brexit riguarda tutta l’Europa e non si vincerà solo con la razionalità economica. Serve la passione di chi lotta per costruire un’altra Europa Possibile.