La crisi della politica in Italia ha cause sia remote che recenti, com’è risultato evidente dai risultati delle elezioni del 4 marzo che premiano una maggioranza di scontenti, ma non indicano in quale direzione debba orientarsi un futuro governo. Tra queste cause vi è ovviamente la crisi dei partiti che si richiamano alle ideologie tradizionali che, a sua volta, è parte della crisi dello stato nazionale in Italia, in Europa e nel mondo, di cui ci si ostina a non prendere atto.
Così le cruciali questioni riguardanti il futuro della civiltà e del proprio paese non vengono nemmeno discusse in campagna elettorale: vi è qualche partito italiano che ha affrontato il problema della disgregazione dell'ordine mondiale, di come arrestare la corsa al protezionismo, al riarmo atomico, a un possibile conflitto nucleare e, infine, di come evitare il collasso ecologico della biosfera? Non intendiamo in un breve articolo rispondere a questi importanti interrogativi, ma proporre una interpretazione della crisi della politica in Italia, che non dipende solo dal suo sistema elettorale e costituzionale, come affermano molti politologi. Viviamo ormai in un mondo in cui economia e politica devono essere considerate come strettamente interdipendenti, nelle nazioni e tra le nazioni: lo ha dimostrato la crisi finanziaria del 2008 che ha avuto origine negli USA, ma che in Europa ha avuto effetti ancora più devastanti e duraturi, a causa della disunione europea. Nel contesto europeo, tuttavia, l'Italia soffre di una miopia congenita a causa di una concezione desueta ed erronea della politica economica: il keynesismo nazionale. E' vero che Keynes ha proposto la spesa in deficit per uscire da una depressione economica gravissima, nel contesto di un’economia chiusa – erano gli anni Trenta –, ma quando ha dovuto fare proposte in vista di Bretton Woods, ha presentato un progetto di Clearing Union che prevedeva un sistema monetario mondiale, dove deficit e surplus eccessivi erano vietati e puniti. Oggi, nell'Unione europea, con una moneta comune, i paesi membri devono tenere in considerazione che l'appartenenza a un’unione monetaria comporta il rispetto di alcune regole necessarie quando il malgoverno di un paese provoca effetti negativi, o spillovers, negli altri paesi. Nell'Unione monetaria europea (UEM) si confrontano due modelli di politica economica che non sono compatibili né tra di loro né con l'UEM. In Germania, le forze politiche sono concordi nel sostenere il cosiddetto ordo-liberalismo, nella sua versione moderna, detta economia sociale di mercato. In sostanza, una politica di bilancio pubblico basata sull'equilibrio – zero deficit (schwarze nul) – sulla stabilità salariale e sulla crescita basata sulla competitività internazionale, dunque su un’elevata produttività industriale e un surplus di esportazioni. Il governo tedesco si è sempre mostrato contrario a stimoli fiscali dell'economia. A questo modello export-led growth, si contrappone il modello mediterraneo (in particolare in Italia e in Grecia), che si può definire debt-led growth, dove non si esita a mantenere o promuovere la spesa sociale anche con deficit di bilancio permanenti, dunque con un debito pubblico crescente. In effetti, il debito non viene ridotto neppure nei periodi di ripresa economica. Si tratta di due concezioni di politica economica incompatibili con una funzionale UEM, perché il modello tedesco (Modell Deustchland) provoca effetti deflattivi nei paesi dell'UEM con minore capacità competitiva (come è avvenuto durante la crisi finanziaria) e non può diventare un modello europeo, perché surplus eccessivi dell'intera UEM creerebbero gravi squilibri globali. Similmente, il modello italiano di crescita basato sul debito crescente è alla lunga insostenibile. Quando finirà il sostegno delle BCE, con la sua politica di quantitive easing, il debito italiano – oggi la BdI ne detiene 363 md – dovrà essere acquistato o dagli italiani o da investitori esteri (che già ne detengono il 34,7%). L'instabilità politica prolungata e altri fattori di incertezza potrebbero provocare un aumento dei tassi di interesse e dunque un aumento del finanziamento del debito pubblico che non solo strozzerebbe la ripresa economica, ma potrebbe avviare il debito pubblico italiano verso il fallimento. E' questo il pericolo temuto, a ragione, dagli altri membri dell'UEM, che potrebbe non reggere l'urto (la Grecia poteva fallire senza provocare disastri europei, l'Italia no). Negli anni in cui si è decisa l'UEM e l'Italia è stata accolta tra i paesi fondatori, il Presidente Ciampi, allora Ministro dell'Economia, ha sostenuto in più occasioni che si trattava di una svolta non solo politica ed economica, ma anche culturale: le forze politiche italiane avrebbero finalmente accettato la cosiddetta cultura della stabilità. Purtroppo, oggi dobbiamo costatare che questo non è avvenuto. Troppi politici italiani sembrano vivere ancora negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, quando era possibile rimediare alla scarsa competitività dell'economia italiana mediante continue svalutazioni monetarie. Questa politica nociva e illusoria oggi non è più possibile. In un’UEM si traggono vantaggi dall'appartenenza a un mercato continentale integrato, ma occorre anche accettare le regole di buon vicinato. La mancanza di una cultura della stabilità economica e finanziaria italiana provoca due effetti politici nefasti: facilita le crisi di governo e la corruzione politica. Il ricorso al talismano del debito pubblico crescente è stato evidente nel corso della recente campagna elettorale nella quale tutti i partiti si sono lanciati a promettere agli elettori facili prebende, come se il sistema economico italiano potesse contare su tassi di crescita mirabolanti. Nessuno – salvo +Europa – ha avuto il coraggio di affrontare la spinosa questione del debito pubblico eccessivo. Eppure, un economista keynesiano avrebbe dovuto ricordare la vecchia regola anticiclica della finanza funzionale, vale a dire che il debito va ridotto quando si manifesta la ripresa, cioè ora. La stessa situazione, seppure in termini differenti, si è presentata nelle passate elezioni e in quelle precedenti. La conseguenza delle promesse impossibili da mantenere è che chi va al governo deve poi tener conto dei vincoli che la Commissione europea è costretta a ricordare con insistenza e, se necessario, a imporre. Molti governanti si illudono che 'battendo i pugni sul tavolo' possono ottenere di più. Ma la verità è che le regole sono state approvate dallo stesso governo italiano, perché sono necessarie al funzionamento dell'UEM. La flessibilità tanto richiesta è già contenuta nelle regole vigenti, ma la flessibilità va usata per arginare una crisi, non per accrescere ulteriormente il debito pubblico. La sola cosa ragionevole da fare, se si vogliono aumentare gli investimenti produttivi, è aumentare la capacità fiscale del bilancio europeo, cosa che è oggi in discussione (un keynesiano dovrebbe sapere che in un’economia aperta sono più produttivi gli investimenti europei rispetto a quelli nazionali). Il risultato della pantomima elettorale è che chi va al governo e cerca poi di mantenere la barra del timone rivolta verso il risanamento della finanza pubblica, viene punito dagli elettori che hanno creduto all'arrivo della manna dal cielo. Così il ciclo politico riprende, eventualmente peggiorato da altre questioni, come la mancanza di una politica europea dell'immigrazione. Il partito che ha avuto il maggior successo elettorale ha fatto della questione morale il suo cavallo di battaglia. La piaga della corruzione politica è un male consistente che va decisamente combattuto. Secondo 'Transparency international' l'Italia si colloca al terzultimo posto sul barometro della corruzione in Europa, dopo di lei ci sono solo Grecia e Bulgaria. La corruzione politica produce effetti negativi sull’efficienza dell'amministrazione pubblica, sulla produttività dell'economia, sul benessere dei cittadini. Aumentano i costi di produzione delle imprese, si riduce la competitività internazionale e si accresce la disoccupazione. A questi effetti negativi occorre aggiungere l'alto tasso di evasione fiscale, che ha raggiunto nel 2017 i 111 md, pari a un quinto delle tasse raccolte o l'intero ammontare delle spese per la sanità. I cittadini si chiedono perché pagare le tasse se poi finiscono nelle mani di corrotti e mafiosi. Che fare per affrontare alla radice la questione morale? La soluzione non può certo consistere nello sforare i limiti di deficit di bilancio e di debito pubblico. L'allegra finanza incoraggerebbe un ulteriore parassitismo della spesa, dove malaffare e mafia prosperano. Sebbene non esista una soluzione miracolosa, è bene tenere presente che il solo appello alla moralità in politica non basta. Chi vuole rimediare al malgoverno deve proporre delle riforme che invertano la tendenza. Un medico non cura il malato con esorcismi, ma con la conoscenza della fisiologia umana e con le tecniche della medicina. Ebbene, l'amministrazione pubblica italiana è malata di centralismo. Anche le riforme in senso autonomistico fatte nel passato non hanno affrontato il problema alla radice, perché al decentramento regionale e locale non si è affiancato il decentramento delle entrate fiscali, che sono sempre decise (salvo margini ristretti) al livello nazionale. Così comuni e regioni decidono di spendere, ma non sono responsabili della raccolta delle risorse finanziarie necessarie. Il centralismo produce poi un circolo vizioso ulteriore: si accrescono norme burocratiche di controllo della spesa e spese per controllori e controllori dei controllori. Una riforma che unisca responsabilità di entrate e spese deve andare verso l'istituzione di una chiara struttura federale a livello locale. A livello europeo si è posto il medesimo problema e si cerca di introdurre forme di responsabilità dei bilanci nazionali che prevedano, in casi estremi, il fallimento di uno stato senza che ciò si traduca in una catastrofe per l'intera UEM. Così occorre fare anche in Italia per gli enti locali, che devono poter fallire se fanno spese senza copertura (mentre ora hanno la quasi certezza del loro salvataggio in extremis, a carico del debito pubblico nazionale). I migliori controllori della qualità della spesa pubblica sono i cittadini che pagano le tasse. Questa riforma è necessaria e urgente, perché gli sviluppi della tecnologia e dell'economia vanno in una direzione in cui gli enti locali diventeranno strategici. L'applicazione dell'intelligenza artificiale e della robotica ai processi produttivi libererà molta forza lavoro dall'industria che potrà essere utilmente impiegata nei servizi pubblici, amministrati sempre più dagli enti locali. Altrettanto avverrà per la riconversione ecologica dell'economia, perché la lotta contro l'inquinamento dell'aria, dell'acqua e dei terreni si combatte efficacemente nelle città e nelle campagne, anche grazie alla mobilitazione dei cittadini. Si tratta di una tendenza che le istituzioni dell'Unione europea stanno incentivando e che gli enti locali – in particolare il Comitato delle regioni – sollecitano. E' una tendenza che va incoraggiata e che per l'Italia comporterebbe un drastico ridimensionamento delle spese nazionali, trasferendo risorse importanti verso l'Unione – ad esempio per la difesa e gli investimenti strategici nella ricerca d'avanguardia e l'università – e verso gli enti locali. Per politiche che implichino riforme costituzionali non è saggio proporre modelli astratti: è sufficiente procedere verso miglioramenti significativi. Tuttavia, alcuni miglioramenti sono di importanza storica quando si tratta di abbandonare stereotipi del passato. Il superamento del mito della crescita infinita del debito pubblico e del centralismo burocratico sono cambiamenti necessari per partecipare a una rivoluzione pacifica: la costruzione della federazione europea, un nuovo modello di civiltà dalla quale gli italiani trarranno grandi benefici.