E’molto difficile intervenire in una situazione in cui sembrano saltati i parametri di relativa razionalità che negli ultimi settant’anni hanno progressivamente negato la legittimità dell’uso della guerra, e hanno provato a sostituirla con sistemi più complessi e meno distruttivi di relazioni internazionali. Ed e’ molto difficile parlarne a scuola senza cadere in luoghi comuni e in semplificazioni fuorvianti. Ma credo utile usare i nostri strumenti di educatori e ricercatori per cercare comunque di comprendere, e aiutare a comprendere, quello che accade. Può essere utile, per esempio, lavorare su alcune parole chiave di grande impatto ma di facile fraintendimento.
Conflitto/Violenza/ Guerra ( e le relative ragioni/motivi /cause). Vanno spesso insieme ma bisogna assolutamente “disaccoppiarle” nel significato e nelle implicazioni concettuali e pratiche. Conflitto è forse l’unico termine a cui ha senso avvicinare la ricerca di ragioni cause, motivi, anche storici, attribuzioni di responsabilità. Perche il conflitto è nelle cose, rimanda comunque a una qualche forma, magari disfunzionale e distorta, di rapporto, e ci sono molti modi anche positivi e fruttuosi di gestirlo.
La violenza invece è diversa, viene da dentro, comporta la volontà di negare ogni relazione e fare all’altro un danno irreversibile, e ha talvolta a che fare con dimensioni individuali profonde. La consapevolezza e la possibilità di gestire il proprio lato violento, di riconoscere l’esistenza dell’altro, esplicitando i vissuti di sofferenza e le ragioni reciproche, può costituire un percorso educativo di grande rilevanza, e infatti lo è in molte esperienze importanti di educazione alla pace.
La guerra è ancora altra cosa . Non è automaticamente connessa né con le ragioni di conflitto né con le pulsioni violente . Ha a che fare con le relazioni tra stati sovrani. E per secoli la guerra è stata vista come la maniera ovvia di risolvere le controversie tra stati attraverso la distruzione feroce e programmata di vite umane. Oggi è’ la scorciatoia criminale delle dittature, inaccettabile per le democrazie e perfino, come vediamo, ipocritamente negata dagli stessi dittatori che la fanno, ma proibiscono di chiamarla col suo nome, e la nascondono dietro la banalità del male di espressioni burocratiche (“operazione militare”, “conseguimento degli obiettivi prefissati” ecc,).
Dopo le due guerre mondiali la ricerca di strategie e strumenti per evitare il ricorso alla guerra è diventata sistematica e ha portato a complesse istituzioni internazionali di mediazione, e anche a esempi , come la UE, di integrazione strutturale tra stati tradizionalmente nemici. Queste strategie strumenti e istituzioni non sempre funzionano, ma conoscerli almeno nelle linee generali è importante. Anche perché altrimenti si finisce col pensare che la pace (altra e fondamentale parola chiave) sia un valore astratto e un’esigenza morale, capace di muovere individui e collettivi anche imponenti, ma alla fine priva di appoggi di forza e destinata a cedere alla logica delle armi.
L’educazione alla non violenza, sia in termini di consapevolezza individuale, sia in termini di metodi di resistenza e pressione collettiva, fa parte delle strategie di ricerca della pace ma non basta a esaurirle. Nelle relazioni tra gli stati, evitare la guerra significa certo moral suasion ed espressione di dissenso, e tanto più forte se all’interno del campo aggressore, come le manifestazioni di opposizione alla guerra di Putin che vediamo in questi giorni in Russia, con migliaia di arresti, e che non è esagerato definire eroiche. Significa però anche pressione di istituzioni internazionali, cooperazione e interventi umanitari, sanzioni economiche, e perfino sistemi di deterrenza. La strategia della pace da perseguire e ripristinare appena possibile, con ogni mezzo e a tutto campo, è una cornice importante soprattutto in quei casi in cui è inevitabile una resistenza armata. Perché bisogna anche discutere di questo, per quanto spinoso possa essere, e non si può chiedere ai cittadini ucraini di non combattere un dittatore sanguinario, e non ci si può mantenere equidistanti tra aggressori e aggrediti.
La Storia. Il nazionalismo distorce la storia, come si vede nel discorso di Putin che giustifica l’aggressione all’Ucraina dichiarando stati legittimi solo le entità politiche già più o meno identificabili nel medioevo. In realtà, quando lo stato nazionalista riscrive la storia, fa arretrare la legittimità, l’ esistenza ammissibile, fino a un passato di antenati mitici. Fa coincidere la salvaguardia della lingua madre con il presidio militare di ipotetici confini “naturali”, ignorando che le organizzazioni statali democratiche sono tali proprio perché non presumono di incarnare una omogeneità linguistica o etnica e che i confini sono storicamente variabili. Qui un esercizio utile potrebbe essere ripercorrere con l’aiuto dell’atlante storico i confini europei degli ultimi cento anni, e approfondire,divisi in gruppi, un secolo nella vita materiale e culturale di uno o più paesi o regioni d’Europa. Per rendersi conto che le identità non sono immutabili e che le “patrie” sono molto più complesse e multiformi e coinvolte in sistemi di relazioni reciproche di quanto non raccontino le mitologie nazionaliste
L’Europa. Anche qui scontiamo una certa confusione, anche nel modo in cui opinionisti di successo presentano i problemi, e la confusione si riverbera anche su quello che si insegna a scuola. Per esempio, è sbagliato presentare l’Europa come una delle tante organizzazioni internazionali dalla buona volontà e dallo scarso potere. Ed è pericoloso indulgere a facili ironie sulle sue mancanze. L’Unione Europea è qualcosa di più di una organizzazione internazionale: è un progetto federale, purtroppo ancora incompleto, che ha integrato in una struttura comune e vincolante stati diversi e anche tradizionalmente ostili . L’impegno a completare questo progetto, in modo da affrontarne in modo positivo anche le contraddizioni, dovrebbe essere ben presente a tutti quelli che si occupano di comunicazione e formazione. Non solo come aspirazione ideale, ma come vera e necessaria strategia culturale.
La capacità di tenuta europea è l’altra faccia della crisi ucraina. Paghiamo prezzi molto severi per la mancanza di una vera federazione europea, soggetto politico di multipolarismo e di mediazione, autonoma dagli USA anche sul piano militare (dato che anche le “potenze erbivore” hanno comunque bisogno di un apparato di protezione!). Questa mancanza ha pesato anche nel riaprirsi di quella faglia bipolare est/ ovest di cui ora vediamo, con l’aggressione putiniana all’Ucraina, la versione criminale.
In concreto, per esempio, e anche senza voler toccare i temi spinosi della politica estera e della difesa europea, è fondamentale che l’Europa si doti di una politica energetica comune che la renda meno esposta a ricatti e a connivenze pericolose. La piccolezza e la fragilità del territorio italiano impediscono di pensare a una autosufficienza nazionale, nemmeno se si mettessero sotto i piedi le considerazioni ecologiche e si rinunciasse alla tutela del suolo e del paesaggio. Ma una gestione autonoma e diversificata delle fonti energetiche sarebbe ben diversa se pensata a livello europeo. Fu la gestione congiunta del carbone e dell’acciaio uno dei pilastri della costruzione della Comunità Europea. Ragionare su questo si può, anche a scuola.
L’articolo “Appunti per una fase difficile” è stato pubblicato nel blog https://www.lasocietainclasse.it/blog/quello-della-pietra-e-della-fionda