di Guido Montani
In pochi mesi alcuni principi istituzionali dell’Unione Europea (EU) sono stati messi in discussione. La crisi Ucraina ha mostrato che l’UE non ha una politica estera: gli accordi di Minsk sono stati negoziati da Germania e Francia con l’Ucraina e la Russia, in assenza della responsabile europea della politica estera. Nel mese di luglio, il Ministro delle Finanze tedesco ha minato il principio dell’indissolubilità dell’Unione monetaria, proponendo l’uscita della Grecia.
Se questo progetto avesse ottenuto il consenso degli altri governi, l’Unione monetaria si sarebbe trasformata in un semplice accordo di cambi fissi e i mercati finanziari internazionali avrebbero cominciato a speculare sulla prossima vittima. Ora, dopo il drammatico flusso di emigrati e rifugiati in cerca di salvezza per sé e per i propri famigliari, è in discussione il principio della libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione: Germania, Austria, Slovacchia e Olanda hanno ripristinato, sebbene temporaneamente, le loro frontiere interne. L’Unione europea, dominata dalla discordia tra governi nazionali, si è dimostrata incapace di agire. Non ha un governo in grado di affrontare le emergenze, siano esse di natura economica, sociale o di politica estera.
Qui ci limiteremo a discutere dell’emergenza umanitaria causata dal flusso imponente di persone in cerca di asilo. Sebbene i governi non lo ammettano apertamente, si tratta di una delle conseguenze causate dalla mancanza di un’efficace politica estera europea verso il Mediterraneo. L’Unione, da decenni, sia a proposito del conflitto israelo-palestinese, sia dopo la destabilizzazione politica di tutta l’area medio-orientale causata dall’invasione americana in Iraq, ha aspettato che fossero gli USA a togliere le castagne dal fuoco. Ora, la sua passività in politica estera sta diventando un problema gigantesco, non solo della politica mondiale, ma anche della politica interna. La politica dei piccoli passi, praticata sinora, illude i cittadini con rattoppi che risolvono i problemi nel breve periodo, senza affrontare le cause strutturali. In questo modo, si offre ai movimenti populisti e nazionalisti un’arma letale per l’erosione del consenso sul progetto europeo. La verità è che la crisi dell’Unione è causata proprio da chi si proclama campione dell’europeismo. Consideriamo tre questioni: la politica dell’asilo e dell’immigrazione; la politica estera e della sicurezza; la questione del governo europeo.
Il Consiglio europeo del 23 settembre ha finalmente deciso alcune misure tampone nonostante l’opposizione di Ungheria, Slovacchia, Repubblica Ceca e Romania, che sono state messe in minoranza, anche grazie al voto preliminare del Parlamento europeo sulle proposte della Commissione. Il piano della Commissione (V. Comunicato stampa del 23 sett.) prevede finalmente sostanziosi aiuti a Turchia, Libano e Giordania, dove hanno trovato rifugio non migliaia, ma milioni di profughi siriani (si stima più di 4 milioni). Questa generosità, già sollecitata invano dall’ONU, è motivata dal tentativo di frenare l’esodo verso l’UE, incoraggiando chi spera in un possibile ritorno in patria. Inoltre, la Commissione è finalmente riuscita ad ottenere un accordo sulla ripartizione di 120.000 profughi (la proposta iniziale della Commissione ne prevedeva 160.000), ma al costo di “rinunciare al carattere obbligatorio della ricollocazione, e anche a un sistema permanente di ripartizione che dovrebbe essere applicato in futuro, così come la penalità finanziaria per gli stati reticenti” (Le Monde, 24 sett.).
A nostro avviso, per diventare efficace nel lungo periodo, questo piano dovrebbe essere completato almeno su due fronti. Il primo riguarda la salvaguardia dello spazio interno di libera circolazione delle persone. Il regolamento di Dublino ha mostrato falle insanabili e il Trattato di Schengen è in pericolo. L’iniziativa per una ristrutturazione radicale di queste politiche dovrebbe essere presa dalla Commissione in accordo con il Parlamento europeo che, sulla base dell’art. 78 del Trattato di Lisbona, può deliberare con il Consiglio sulla base della “procedura legislativa ordinaria”. In sostanza, si tratta di elaborare una “Carta europea dei diritti e dei doveri dei rifugiati e degli immigrati.”
La Carta deve naturalmente includere le complesse questioni della legalità, inclusa la distinzione tra immigrato economico e rifugiato (un giovane proveniente dall’Africa sub-sahariana, che rischia due volte la sua vita, prima nell’attraversare il deserto e poi il Mediterraneo, deve essere respinto nel paese d’origine?). Inoltre, la Carta deve contenere una procedura precisa per l’ottenimento della cittadinanza, che non può più essere fondata sull’art. 9 del TL dove si afferma che “è cittadino dell’Unione chiunque abbia la cittadinanza di uno stato membro.” Chi attraversa le frontiere esterne dell’Unione entra prima nel territorio dell’Unione e poi in quello di uno stato membro (si pensi al caso dei flussi verso la Germania).
Oggi, questo fatto è oscurato da norme cervellotiche che tentano di salvaguardare il principio della sovranità nazionale. Sarebbe invece necessario riconoscere che un individuo che entra ‘legalmente’ nei confini dell’Unione deve accettare la “Carta dei diritti e dei doveri” come soluzione provvisoria, sino a che decide o di ritornare al suo paese o di diventare cittadino europeo. Durante la transizione, ogni paese membro prevede delle procedure proprie per l’ospitalità temporanea e per l’acquisizione della cittadinanza, ma l’Unione europea deve includere nella Carta una formula omogenea per il “Giuramento di fedeltà” (Oath of allegiance, nel mondo anglo-sassone) la cui base deve essere la Carta dei diritti fondamentali, oltre ai Trattati esistenti. In sostanza, non si vede alcuna ragione per assegnare la priorità alla cittadinanza nazionale rispetto a quella europea. La soluzione più logica è quella di una cittadinanza europea fondata sulla residenza.
Il secondo problema riguarda la politica estera e della sicurezza verso il Medio Oriente e l’Africa, le regioni da cui proviene la maggior parte degli immigrati. Se si vuole affrontare la questione alla radice, occorre garantire a questi individui una speranza di vita migliore e maggiore sicurezza nei loro paesi d’origine. Da decenni l’Unione rinvia il varo di serie politiche per lo sviluppo e la stabilità democratica di questi stati. Lo sforzo iniziale compiuto verso la Turchia, il Libano e la Giordania va completato con un piano organico che preveda non solo investimenti in infrastrutture, come reti di comunicazione, scuole e ospedali, ma anche progetti concreti di integrazione regionale tra paesi confinanti, per consolidare i regimi democratici esistenti (il recente esempio del colpo di stato in Burkina Faso, sventato con l’intervento della ECOWAS, dimostra che l’integrazione regionale stabilizza la democrazia). Naturalmente l’UE non può più investire in questa politica di buon vicinato le briciole del suo bilancio europeo: il bilancio europeo deve essere accresciuto adeguatamente. Inoltre, é necessario por fine all’ostinato e patetico veto francese alla creazione di una Comunità europea di difesa. La politica estera e della sicurezza europea non può consistere solo di diplomazia.
Su questo punto vale un parallelo con la politica monetaria. Quando il sistema monetario, creditizio e finanziario entra in crisi, si fa appello al prestatore di ultima istanza, cioè la BCE. Per la politica estera e della sicurezza non esiste un “potere di ultima istanza” quando le trattative politiche e diplomatiche falliscono. L’Unione europea deve prendere atto che gli USA non sono più disposti a sostenere un intervento militare né nell’est europeo né nel Medio Oriente per salvaguardare gli interessi europei. Lo faranno solo se l’interesse americano consiglia loro di salvaguardare la facciata di una solidarietà atlantica che aveva una ragione di vita ai tempi della guerra fredda, ma che ora non si può reggere più solo sul “potere di ultima istanza” statunitense. Mentre, tra Russia, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna, si sta formando una coalizione militare anti Stato Islamico, un barbaro relitto medioevale, l’Unione europea resta a guardare impotente.
La terza e ultima questione riguarda il governo europeo. Molti opinion-makers sostengono che l’UE deve diventare un’unione politica, ma poi le opinioni divergono su che cosa sia una unione politica. Alcuni vorrebbero rafforzare il Consiglio, dove sono i capi di stato a prevalere, favorendo così la leadership della Germania. Altri vorrebbero completare l’Unione monetaria con un parlamento degli stati membri (un regresso democratico, rispetto al Parlamento europeo eletto dai cittadini), per coordinare meglio le politiche fiscali nazionali con la fiscalità europea. La risposta a queste proposte fantasiose è che l’Unione ha bisogno di un governo democratico, dotato dei mezzi adeguati per far fronte non solo alla ordinaria amministrazione, ma anche alle emergenze. La storia insegna che i popoli si sono dotati di un governo quando hanno dovuto affrontare sfide esistenziali, come le minacce di guerra o di invasione. L’Unione europea ha già un governo – la Commissione – ma senza i poteri sufficienti per agire né in situazioni di ordinaria amministrazione né, tantomeno, in situazioni di emergenza.
Consideriamo il recente assedio alle frontiere dell’Unione da parte dei cittadini siriani in cerca di asilo. La situazione è stata sbloccata da una coraggiosa e generosa dichiarazione della Cancelliera Merkel. Ma il governo tedesco non è il governo dell’Unione e la sua dichiarazione ha messo in moto una serie di reazioni che potrebbero portare in una direzione esattamente opposta a quella auspicata. Incoraggiati dalla generosità senza limiti offerta inizialmente, i flusso di emigranti potrebbe trasformarsi in un torrente inarrestabile. Lo Spiegel on line (21 sett.) ha criticato severamente questo modo di procedere.
La Sig.ra Merkel, continuando la strategia che aveva rafforzato la sua leadership nel corso della crisi dell’unione monetaria, secondo lo Spiegel “sta tentando di trasformare la Germania in una superpotenza morale in Europa.” La sua dichiarazione ha avuto effetti non ben calcolati inizialmente. “L’invito della Sig.ra Merkel, dopo tutto, non è stato fatto solo in nome della Germania, ma dell’Europa.” L’ira del premier ungherese Orban non era fuori luogo: Schengen e Dublino sono stati scardinati in un solo colpo e la Germania stessa è dovuta ritornare sui suoi passi chiudendo le frontiere, perché non è possibile organizzare una seria politica di accoglienza su vasta scala in pochi giorni. “Una delle lezioni della crisi dell’euro – afferma lo Spiegel – è che non vi è più una politica interna [nazionale] in Europa. Quando l’economia ristagna in Francia e le pensioni esplodono in Grecia, tutti ne subiscono le conseguenze. … La Sig.ra Merkel ha trasformato le richieste di asilo in un gigantesco dramma politico ed esistenziale per l’Unione europea. E’ stato un errore. … Così come la Germania non è stata in grado di creare un euro a immagine e somiglianza del deutsche mark, Berlino non sarà in grado di esportare la sua precisa visione morale al resto dell’Europa.”
Queste critiche non sono né di destra né di sinistra. Sono critiche legittime di chi si pone il problema di una politica realistica dell’immigrazione e del diritto di asilo che non c’è e che non si sa bene come fare, viste le divisioni che si sono manifestate nel Consiglio europeo. La semi-egemonia tedesca, per usare un efficace concetto dello storico Ludwig Dehio, rischia di creare conseguenze ingestibili a lungo termine, mettendo ancora più in pericolo l’unità politica del continente. Come si esce da questa situazione? I federalisti propongono – con costanza, ma senza essere ascoltati – che si prenda in considerazione la soluzione prevista nel progetto di Trattato di Unione (o Progetto Spinelli) che i governi nazionali hanno rifiutato di ratificare a suo tempo.
In sostanza, la Commissione deve diventare un vero governo dell’Unione, responsabile di fronte ad un parlamento bicamerale, il Parlamento europeo, dove sono rappresentati i cittadini e un senato (Consiglio) dove sono rappresentati gli stati e dove il diritto di veto è abolito. Questo significa che sulle materie (o competenze) affidate all’Unione è la Commissione che deve decidere e agire con mezzi finanziari propri adeguati, anche militari quando è il caso. Solo così i governi nazionali rinunceranno alla tentazione di “guidare” l’Unione con azioni nazionali e con punti di vista che privilegiano i loro interessi, sebbene incapsulati in formule europeistiche. L’Unione europea è un’unione di democrazie e l’unico governo legittimo dell’Unione è un governo democratico, sostenuto dalla volontà comune dei cittadini e degli stati membri.
Approfondimenti:
- EC Press release - http://europa.eu/rapid/press-release_IP-15-5700_en.htm
- Spiegel on line, Merkel's Refugee Policy Divides Europe http://www.spiegel.de/international/germany/refugee-policy-of-chancellor-merkel-divides-europe-a-1053603.html
- Le Monde, L'UE impose la répartition de 120.000 réfugiés. http://www.lemonde.fr/europe/article/2015/09/23/l-ue-impose-la-repartition-de-120-000-refugies_4768199_3214.html