ANTEFATTO. Domenica 15 gennaio ho partecipato all'iniziativa, organizzata dai Pettirossi Lombardia, "Eutopia. La Sinistra tra Unione Europea e sovranità nazionale". Si trattava di un incontro al quale ero stato invitato, tardando a rispondere, e per la partecipazione al quale poi avevo insistito con l'ottima organizzatrice, Rosa Fioravante. Il tema che dovevo affrontare, insieme a Somma e D'Angelillo, era sulla compatibilità tra diritti costituzionali e trattati europei, e mi era stato chiesto di fare un'introduzione di tipo storico - non essendo io un giurista strictu sensu. Compito che avevo preso con piacere, presentando, dal mio punto di vista, la necessità che la sinistra, rimasta per lungo tempo indifferente al processo di integrazione economica, dovesse adesso affrontare una battaglia per la definizione, a livello superiore, europeo, di diritti e tutele già protetti dalle carte costituzionali nazionali. Il risultato è stato un ascolto attento, non scevro da qualche isolata e subito rientrata contestazione, ma soprattutto è stato l'emergere di posizioni che mi erano in gran parte ignote: una parte della sinistra "sinistra" disconosce l'Europa come campo di azione politica e preferisce tornare al tranquillizzante alveo nazionale. Con esiti che, secondo me, potrebbero essere deleteri.
Sulla scia dell'esperienza vissuta ieri al convegno "Eutopia" mi vengono alcune considerazioni inattuali, delle "Betrachtungen eines Unpolitischen", come direbbe Thomas Mann. Perché in fondo questo pensava di me una parte dell'uditorio (o forse tutto): che presentassi delle considerazioni fatte da una persona "non-politica", fuori dal corso della storia, quella giusta. A parte la piccola contestazione subita, subito rientrata, è l'insieme delle posizioni presentate ieri, soprattutto in chiusura da Alfredo D'Attorre, che meritano secondo me una riflessione.
Ora, la storia è avara di consigli, ma prodiga di esperienza. Si tratta dell'unico maestro che prima ti boccia e poi ti spiega la lezione. A patto ovviamente di volerla capire.
Io penso, su una base di conoscenza storica sicuramente limitata, che lo Stato nazionale sovrano e l'insieme di interessi e aspettative che erano nati e sviluppati e consolidati al suo interno, siano stati dei motori fondamentali per la crescita delle società nazionali all'interno dell'Europa. Lo Stato permetteva certezza del diritto, regolarità dei rapporti economici, servizi, e tutto il resto che serviva alle società nazionali per crescere e consolidarsi.
All'interno di queste società sorgevano anche diverse visioni politiche, avendo come orizzonte di riferimento l'ambito nazionale. L'irruzione delle masse nella storia, la nazionalizzazione di esse, portò con sé una evoluzione nei rapporti di classe: anche l'internazionalismo proletario o operaio che dir si voglia, si nutriva di una visione nazionale.
L'internazionalismo era una etichetta ideologica, ma scarsamente applicata in pratica, perché comunque i vincoli nazionali (patriottismo, fedeltà alla propria popolazione e nazione di appartenenza) erano legami troppo forti per essere scalfiti da un obiettivo così alto, ma anche così lontano, come l'attesa nascita di una alleanza internazionale tra i lavoratori per la comune patria socialista. Si operava per il miglioramento delle condizioni dei lavoratori, per l'emancipazione politica e sociale del proletariato, per la conquista di diritti, ma sempre nell'ambito nazionale (era impossibile fare altrimenti) e lasciando la dimensione internazionale come residuale, un grido di battaglia, non un piano di battaglia. Fu per questi vincoli che i socialisti francesi e tedeschi votarono senza grossi traumi le spese di guerra rispettivamente nei parlamenti francese e tedesco nel 1914.
Fecero eccezione i socialisti italiani, che però non avevano il "nemico alle porte", e comunque nel 1915 anche una buona parte del socialismo italiano decise per l'intervento. Altro caso che vale la pena di ricordare: nel gennaio 1935 i tedeschi della Saar vennero chiamati a decidere se la regione doveva diventare definitivamente tedesca, restare sotto tutela internazionale o diventare francese. Il 98 per cento degli elettori tedeschi della Saar, in gran parte operai e militanti della SPD o del KPD, scelsero Hitler, sapendo bene che la loro autonomia politica e in molti casi la loro stessa sicurezza individuale sarebbero in tal modo scomparse. Scelsero l'appartenenza nazionale e molti tra essi finirono nei lager a fare i kapò per i carcerati ebrei che arrivarono anni dopo.
Il dibattito che oggi anima il fronte sovranista a sinistra contro l'euro e contro l'Unione europea ripropone lo stesso assurdo posizionamento: prima lo Stato, poi, nel caso, la cooperazione internazionale. Sembra di sentire parlare un placido Junker prussiano che cura i suoi affari in Pomerania. L'Europa non garantisce diritti e tutele, l'Europa ci colpisce nei nostri interessi economici fondamentali, lede diritti guadagnati sul terreno nazionale, quindi l'Unione europea, e l'euro, non sono elementi positivi. In più, l'Unione europea non è riformabile dall'interno, ma va sciolta, abbattutta, tornando a una dimensione economica di cooperazione internazionale, che garantisca l'autonomia dei singoli soggetti nazionali sul piano economico e commerciale. L'Unione europea si abbatte, non si cambia, sembra essere lo slogan di questi sovranisti di ritorno.
Vi sono molti motivi validi per criticare l'attuale governance europea dell'economia: nessuno pensa anche minimamente, se ha bastante onestà intellettuale, di dire che ciò che è oggi l'Unione corrisponde all'unione politica fra stati sognata nel periodo fra le due guerre e la Resistenza. Ma è proprio questo il punto: facendo di Spinelli e di altri esponenti federalisti, i complici dello sviluppo neoliberista tecnocratico che caratterizza l'Unione attuale, si compie in questo caso sì, un profondo atto di disonestà intellettuale, un atto di squadrismo delle idee.
Il mio argomentare, sabato all'iniziativa dei Pettirossi Lombardia, era proprio questo: la sinistra, progressista e radicale, per molti anni si è tenuta in disparte rispetto all'evoluzione della CEE verso l'Unione economica e monetaria e l'Unione europea; si trattava di una creazione "borghese", da denigrare, e mentre Giuseppe Di Vittorio ammoniva che la nascita di una Comunità europea del carbone e dell'acciaio poteva in prospettiva rappresentare un vantaggio per la tutela sindacale dei lavoratori europei, quindi anche italiani, la parte "politica" della sinistra europea manteneva un freddo distacco. Un distacco che nel caso italiano restò fino al 1976 (vale la solo la pena ricordare che fino al 1975 l'URSS condannò la CEE come strumento di integrazione economica capitalista) e lo stesso PCI poté cambiare idea e impegnarsi sul campo europeo solo a partire dal 1976, grazie a Giorgio Amendola e a Berlinguer, non a caso nell'anno della elezione di Spinelli nelle fila del PCI come indipendente.
Il resto divenne una rincorsa con ostacoli: il processo di integrazione dei mercati, la nascita del Trattato di Maastricht, l'Unione monetaria, il mercato unico, la Carta di Nizza, il trattato di Lisbona (preceduto dall'importante esperienza della Convenzione sul futuro dell'Europa) sono momenti di un processo di integrazione economico-finanziaria sui quali la sinistra radicale è rimasta paradossalmente - e direi sconcemente - muta. Forse non capiva cosa stesse succedendo, forse si fidava delle scelte del socialismo rosé di Mitterrand e Craxi e Callaghan, ma resta il fatto che la sinistra radicale ha accolto la retorica europeista fidente, senza critiche fondanti. Oggi, questa acquiescenza si trasforma in rabbia, in neo-sovranismo, nell'invocazione patriottica sulla grandezza dell'Italia come soggetto economico e commerciale, nella sottolineatura della primazia della nostra Carta Costituzionale e delle tutele dei diritti del lavoro in essa contenute, ma perdendo per strada, totalmente, il piano "politico" europeo. Se l'Unione è irriformabile (ma chi l'ha detto? ma perché lo ha detto?) tanto vale tornare allo Stato sovrano nella sfera economica e monetaria, unica garanzia dei lavoratori.
E qui, cascano le braghe.
Eh sì, care compagne e compagni (absit iniuria verbis), perché se voi abbandonate la dimensione politica della riflessione sul processo di integrazione europea, se pensate che esso sia stato "solo" un processo di integrazione dei mercati e non recuperate neppure un briciolo della idealità politica che ne stava alla base, se non interpretate il reale cercando di modificarlo e di incidere su di esso, ma vi rifugiate nel neosovranismo isterico "no euro, no Unione Europea", su quale certezza vi appoggiate per dire che non state ponendo le basi di nuovi conflitti tra gli Stati europei?
Durante gli anni della costruzione europea, all'ombra degli equilibri della guerra fredda, tali conflitti non potevano verificarsi per motivi troppo ovvi, ma chi dice che prossime guerre commerciali non possano sorgere tra Stati europei tornati indipendenti e sovrani in campo economico e commerciale, troppo piccoli per competere validamente sui mercati globali e quindi naturalmente tesi all'integrazione, di nuovo, dei loro sistemi economici?
E chi vi dice che queste guerre commerciali non si trasformino in conflitti latenti e magari caldi, come TUTTA la storia europea insegna negli ultimi quattro secoli? Abbandoniamo un sistema di integrazione economica per pensare poi, tornati di nuovo singoli soggetti, a nuove forme di integrazione? Ha un nome medico, tutto ciò: si chiama schizofrenia.
Pensare invece alla realtà del processo europeo di integrazione economica e cercare di spostare la dimensione democratico-rappresentativa e partecipativa dallo Stato nazionale alla dimensione sovranazionale, non sarebbe più logico? Mi verrebbe da dire "scientifico", nel senso marxista del termine, ma capisco anche che ciò che voleva fare Trotskji nel 1921 proponendo a Lenin la parola d'ordine degli Stati Uniti d'Europa, possa suonare ancora oggi eretico a orecchie tappate.
L'Unione europea esiste, facciamocene una ragione. Esiste anche l'europeizzazione delle società nazionali europee. Esiste un vastissimo insieme di interessi economici, commerciali e politici che si sono coagulati e costruiti sulla base dell'esistenza del sistema istituzionale dell'Unione europea, e mi pare assurdo, se non stupido, voler rinunciare a operare in tale ambito per rifugiarsi nel tranquillizzante alveo dei nostri confini economici nazionali, naturalmente protetti, naturalmente solidi, naturalmente tutelati.
L'ultimo Spinelli, il parlamentare europeo, propose proprio questa battaglia ai suoi colleghi parlamentari: la dimensione nazionale della tutela dei diritti e della partecipazione politica non basta più a fronte di un sistema economico integrato a livello europeo. Era necessario estendere la lotta politica oltre i confini nazionali e lottare per una definizione dei diritti allo stesso livello. Cosa ha di così spaventoso questa battaglia? Forse che vi tremano le gambe di fronte ai cattivi borghesi che hanno integrato i mercati? Forse che pensate che i numeri del vostro consenso elettorale valgano più a livello nazionale che a livello europeo? Forse credete che una democrazia europea partecipativa e rappresentativa sia meno valida rispetto alla democrazia partecipativa e rappresentativa a livello nazionale?
Lo so cosa pensate: i diritti li si tutela meglio nelle carte costituzionali nazionali. Non esiste tutela dei diritti a livello europeo, che non sia la Carta dei diritti dell'Unione, carente.
Ebbene, su questo spunto polemico vorrei essere chiaro. Il trattato di Roma del 1957 non contempla la tutela dei diritti dei lavoratori perché si tratta di un trattato internazionale classico: si intendeva creare un'Unione doganale, un mercato interno, organizzare due politiche comuni (solo due: politica agricola comune e politica comune dei trasporti) e definire le istituzioni che avrebbero dovuto guidare la cooperazione tra i Paesi membri in questi ambiti. Punto.
Chi oggi cerchi definizioni "alte" nel trattato di Roma farebbe un po' la figura di chi va a comprare un'auto e si stupisce che all'interno del contratto non ci sia un richiamo alla sicurezza stradale, all'uso delle cinture, a guidare sobri. Gli sviluppi successivi, da Maastricht in poi, non hanno risolto questo limite: l'Europa si integrava ma la tutela dei diritti fondamentali restava nelle mani degli stati nazionali. Non si tratta di una battaglia interessante questa? Non vi solletica l'anima politica pensare che un impegno reale, e concreto, per la definizione dei diritti fondamentali diffusi avrebbe più senso a un livello sovranazionale che non a livello nazionale? Cosa spaventa? L'euro?
Eppure vi dite - e orgogliosamente - internazionalisti. Come mai diventate i corifei del nazionalismo economico mentre vi atteggiate a internazionalisti proletari (non voglio dire cosmopoliti borghesi, ma molti tra voi di fatto questo sono...)? C'è del marcio, intellettualmente parlando, in tutto questo.
Lo so, siete rimasti orfani di un sacco di cose: il partito di massa, tranquillizzante e complesso e in grado di dare una risposta a tutto; i riferimenti ideologici, scalfiti dall'asserita fine della storia dopo il 1989; un capitale sfuggente e multiforme, integrato, vorace ma non facilmente individuabile come nemico. L'Unione europea e l'euro diventano la personificazione di questo nemico. Lo posso capire: si tratta di creazioni tecnocratiche con una chiara valenza politica. Ciò che non capisco è il vostro rifiuto a scendere su quel campo sovranazionale a portare la vostra battaglia e preferire una ritirata strategica, tanto stupida quanto sterile, sul campo nazionale.
E questa si chiama abdicazione. L'abdicazione degli orfani a fare politica a un livello sovranazionale riconoscendo valore solo alla lotta politica nazionale per raggiungere, se va bene, il 3%, magari in momentanea alleanza con la destra populista e becera o con il leghismo o, peggio ancora, gli azzeccagarbugli del M5S.
Posso garantire una cosa, la cosa peggiore che potevate fare è stata fischiarmi: a me piace il canto, ma soprattutto piace ragionare, e continuerò a farlo a ogni livello per evitare una tale tragedia politica: l'abdicazione degli orfani che pensano di tornare alla sovranità economica nazionale.