Sul sito di Radio3 è disponibile un breve ma significativo racconto dei primi vent’anni che Marina Lalovic ha trascorso lontano dal suo paese di origine, la Serbia, un’intesa narrazione del suo legame con l’Italia e con quella che fu la ex Jugoslavia. Prima ancora di ascoltare le cinque registrazioni, che nel complesso prendono poco più di un’ora ho deciso di scrivere una recensione del lavoro di Marina.
Anzitutto, chi è Marina? Marina vive in Italia dal 2000, in Italia è arrivata poco più che diciottenne, ha studiato ed ha intrapreso la carriera di giornalista. Gli anglofoni direbbero “she’s a Serbian born journalist.”
Altro quesito importante: perché io scrivo una recensione sul viaggio dalla Serbia all’Italia di Marina? Per due ragioni. La prima, forse quella più visibile ma forse per me meno densa di significati, anch’io a diciotto anni sono andato a tanti chilometri dalla casa dei miei genitori. La seconda, forse quella che più mi prende, è che io, che da sempre mi definisco italiano ed europeo, sento una grande attrazione per la Serbia, la Bosnia ed altri paesi dei Balcani occidentali dove si sono scritte, spesso in modo cruento e straziante, parti importanti della nostra storia.
1995. Srebrenica. 8.372 uomini vengono trucidati nel giro di pochi giorni dalle milizie della Repubblica Serba di Bosnia Erzegovina guidate da Ratko Mladic. Vengono massacrati solo perché sono musulmani. Eppure dopo la seconda guerra mondiale noi europei avevamo giurato che mai più in Europa sarebbe stato ucciso qualcuno per la sua religione. Non so se come dice un amico una certa idea di Europa è morta a Srebrenica, ma di certo Srebrenica è stato un tradimento del sogno europeo di Spinelli e dei padri fondatori.
1999. Durante la guerra del Kossovo gli aerei della Nato bombardano Belgrado. E’ un evento che scuote la mia coscienza. In Italia abbiamo un governo di centro-sinistra, il premier, Massimo D’Alema, autorizza ad usare lo spazio areo italiano. Io ragazzino di sinistra non riesco a capire come è possibile che il primo premier della storia italiana che arriva da un partito della sinistra senza trattini, il PCI, dia il semaforo verde alle bombe. Spesso torno a pensare alle bombe di quel 1999 da cui ormai ci separano oltre vent’anni, e ancora non trovo risposte.
Ma torniamo alla storia di Marina. Esistono differenti tipi di migrazioni. C’è chi lascia la sua terra forzatamente, chi per scelta. Chi lo fa in aereo, chi con una fuga. Chi lo fa da solo, chi con la famiglia o in gruppo. Ogni migrazione ha aspetti intrinsecamente umani ed altri che potremmo definire storici, politici, economici e di contesto.
Marina si chiede cosa spinge a partire, a restare o a tornare. E ancora, chi parte cosa tradisce.
C’è chi va via per scappare da una situazione difficile, c’è chi va via perché ha voglia di vedere il mondo, di cambiare aria, di vivere contesti diversi e non lo fa perché nella sua terra di origine non sta bene; o almeno quando parte non ha ancora capito che nella sua terra di origine non sta bene. Chi come me lascia la sua terra d’origine a 18 anni per frequentare l’università in una grande città lo fa perché vuol vedere il mondo, vuol vedere e provare cose nuove. Diversamente nel suo racconto Marina dice che decise di partire proprio quando il dannato periodo di Milosevic volgeva al termine perché riteneva che il suo paese di origine avrebbe avuto bisogno di almeno altri dieci anni per raggiungere la normalità. Una frase di Marina è illuminante, dieci anni sono pochissimo per la storia di un paese ma tantissimo per la vita di una persona. Nel bellissimo racconto di Marina interviene anche la sua insegnante di Italiano di Belgrado, che dice che in fondo in Marina aveva sempre visto una grande voglia di partire. Ecco per un giovane italiano che a diciotto anni lascia la sua piccola città per trasferirsi in un grande centro le ragioni personali ed emotive pesano per il novanta per cento e quelle economiche e di conteso per il 10 . Per Marina forse le ragioni politiche, economiche e di contesto hanno pesato per almeno il cinquanta per cento.
I paesi dell’Europa centrale, orientale, baltica e balcanica hanno un tratto che li accomuna all’Italia meridionale da cui io arrivo: il declino demografico. L’Europa dei giovani in fuga è ormai un continente nel continente ed accomuna regioni come quelle del meridione d’Italia con una disoccupazione ufficiale che veleggia attorno al 20% e paesi come la Polonia, l’Ungheria, la Slovacchia la Repubblica Ceca che hanno tassi di disoccupazione bassissimi, gli economisti direbbero che sono in uno stato di disoccupazione “naturale”. Da una parte c’è il mezzogiorno d’Italia e d’Europa, la Spagna, la Grecia e il Portogallo, da cui si scappa per la disoccupazione, dall’altra ci sono i paesi del blocco di Visegrad da cui si scappa nonostante la piena occupazione, per ottenere condizioni di vita migliori, a partire dalla paga oraria. Circa un paio di mesi fa all’Aeroporto di Brno, in Repubblica Ceca, ho incrociato due ragazzi italiani lì trasferitisi per lavoro. Ho chiesto loro se effettivamente la Repubblica Ceca dove la disoccupazione non esiste fosse il nuovo El Dorado. Loro mi hanno risposto che si trova lavoro facilmente, che al netto degli affitti relativamente elevati il costo della vita è molto basso, ma che la piena occupazione è in gran parte dovuta ai salari di 16.000 corone al mese, poco più di 600 euro. Io, che ho una formazione economica, faccio un po’ fatica a credere che alla fine esistono due periferie d’Europa, una in cui l’impresa vera e propria non si vede più, l’altra che dopo la fine del comunismo è stata ridisegnata ad uso e consumo delle imprese – e la flat tax adottata da quasi tutti i paesi post comunisti è il simbolo di questa svolta – ed alla fine le due periferie hanno gli stessi problemi.
La Serbia è forse un ibrido tra le due periferie d’Europa. La disoccupazione, seppur in forte calo, è ancora attorno al 10% eppure, come ricorda un amico intervistato da Marina, Irvin, un uomo che scappò da Srebrenica in uno dei momenti più bui della nostra storia recente e che poi ha deciso di ritornare, non c’è più la guerra ma la gente continua ad andar via perché mancano le prospettive. Non tutti vanno via, ma tanti lo fanno.
Marina si chiede poi chi va via cosa e chi tradisce. Io credo che chi va via non tradisca niente e nessuno. Credo che ognuno debba provare a vivere nel posto dove crede di potersi meglio realizzare. Solo quando si sceglie prima dove vivere e poi chi si vuol essere si tradisce qualcuno, si tradisce se stessi. I politici e in generale tutti coloro che prendono decisioni importanti nell’Europa che si sta spopolando non devono avere l’ansia di “trattenere i loro ragazzi” ma devono pensare a come rendere più attraenti le loro terre. Quando guardo alla mia Sicilia penso che io sono andato via per una scelta libera, molte altre e molti altri sono andati via controvoglia – qualcuno, non a torto, parla di migrazioni forzate da mancanza di opportunità e criminalità – molti ancora si trasferirebbero da altre regioni e da altri paesi in Sicilia se solo ci fosse “la praticabilità di campo” per cercare un lavoro. Eppure dalle mie parti spesso si rimpiange la partenza di chi è andato via per sperimentare, per provare altri contesti e non il fatto che molti vanno via anche se preferirebbero restare e altri ancora arriverebbero ma non lo fanno perché non ci sono le condizioni economiche. L’Europa meridionale ha una grandissima necessità di ritrovare efficienza ed allo stesso tempo combattere le disuguaglianze e lo sfruttamento, L’Europa centrale, orientale, baltica e balcanica deve correggere un modello economico che troppo si basa sui salari bassi. E’ veramente assurdo che in Repubblica Ceca, il paese con la più alta incidenza del manifatturiero nell’Unione Europea, 38% degli addetti, vi siano una disoccupazione sotto il 3% e allo stesso tempo un milione di persone su una popolazione di poco più di dieci, sotto la soglia di povertà.
L’aspetto che ho in assoluto più apprezzato nel racconto di Marina è la condanna e la presa di distanza dal nazionalismo. Una cosa è amare il proprio paese, la propria terra, le proprie tradizioni, altra cosa è il nazionalismo. Come disse il presidente francese Mitterrand in uno degli ultimi discorsi prima della sua morte, il nazionalismo è la guerra. Marina racconta che appena arrivata a Perugia conobbe ragazzi e ragazze di quella che un tempo era stata la Jugoslavia. Dice “ci volevano nemici, non ci sono riusciti”. Racconta che in grandi città europee come Vienna, o in tante città italiane, croati, bosniaci, serbi di città lontane che mai e poi mai non partendo avrebbero avuto l’opportunità di conoscersi, hanno creato relazioni solide, probabilmente anche complice la lingua comune. Migrando qualcuno è riuscito a scappare dal nazionalismo. Noi europei dovremmo fare di più per battere i nazionalismi, i razzismi, la xenofobia. Non siamo riusciti a evitare Srebrenica, forse l’Europa non è morta a Srebrenica, ma ha riportato una ferita che sanguinerà per sempre. Proprio adesso che i nazionalismi, con altri nomi e simboli diventano sempre più popolari, occorre essere vigili. Un’ attenzione particolare deve esser prestata alle generazioni dei nati a partire dagli anni ottanta, ovvero quelle che più hanno avuto la possibilità di studiare e di viaggiare, ma anche quelle più esposte al precariato, alle incertezze, ai repentini cambiamenti della contemporaneità e alle sirene dei nazionalisti. Rifuggendo semplificazioni quali quella della generazione erasmus – in molti paesi d’Europa i giovani che possono viaggiare e soprattutto quelli che fanno l’erasmus sono una minoranza – serve spiegare ai più giovani che quando il sistema non funziona occorre lavorare per ripararlo e non sperare in soluzioni distruttive come quelle proposte dai nazionalisti che causano morte e mai benessere per chi sopravvive.