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Il Muro di Berlino - Wikimedia commons https://commons.wikimedia.org/wiki/File:West_and_East_Germans_at_the_Brandenburg_Gate_in_1989.jpg

Il 1989, come è noto, è l’anno della caduta del muro di Berlino, della fine guerra fredda, dell’inizio, almeno nelle speranze, di una nuova fase della storia europea e mondiale. Ma i muri, intesi in senso lato come barriere più o meno “armate” al libero movimento delle persone, sono da allora, secondo uno studio dell’Università del Québec realizzato nel 2016, almeno triplicati, da 15 a 63 in tutti i continenti, Europa compresa, coinvolgendo nell’insieme 67 Stati.

Dopo il 2016, come è noto, la situazione è ulteriormente peggiorata: sempre nuovi muri sono immaginati e progettati, nelle più diverse forme, per separare “noi” da “loro”. Il presidente Trump, negli Stati Uniti, auspica e promuove il completamente del muro da tempo in costruzione lungo la frontiera (3200 km.) con il Messico In Asia, una frontiera fortificata separa l’India e il Bangladesh, e più in generale tutto il continente primeggia nella “gara dei muri” in corso nel mondo. Un esempio europeo, in qualche modo originale e inedito, è il “muro d’acqua” rappresentato dal Mediterraneo, che separa l’Africa dall’Europa. Migliaia di persone muoiono ogni anno lungo questo particolare muro, certamente costruito dalla natura e non dagli uomini, ma altrettanto certamente reso letale dalle loro ipocrisie e dalle loro omissioni.

I muri, nelle loro varie e in qualche caso anche imprevedibili tipologie, sono l’espressione più evidente e ricorrente della conflittualità nella storia umana. Come gli animali, dei quali sono del resto oggettivamente (non è un giudizio di valore, ma semplicemente un fatto) parenti stretti, gli uomini “segnano il territorio”, ne delimitano i confini, agiscono secondo la logica del “noi” e del “loro”. Già nel XVII secolo il filosofo francese Blaise Pascal in uno dei suoi più celebri “Pensieri” racconta, e denuncia, questa logica, come vedremo meglio in seguito inevitabilmente omicida e nel contempo suicida, attraverso una breve conversazione immaginaria fra due personaggi: “Perché mi uccidete? Ma come! Non abitate dall'altra parte del fiume? Amico mio, se voi abitaste da questa parte io sarei un assassino, e sarebbe ingiusto uccidervi in questo modo. Ma dal momento che vivete dall'altra parte io sono un valoroso e ciò che faccio è giusto”.

Più precisamente, per fare ora specifico riferimento all’epoca contemporanea, i muri sono l’espressione più compiuta del nazionalismo identitario, che segna la storia più recente, non soltanto europea, e che non è finito ma si è fatto anzi più letale e pervasivo nel contesto della globalizzazione ingovernata in cui siamo sempre più immersi nel nuovo secolo e millennio. Come ha scritto in modo forse “politically incorrect”, ma certamente molto efficace, il politologo americano Stephen M. Walt su Foreign Policy, “la forza più potente al mondo non è il nucleare, Internet, Dio o il mercato dei bond. E’ il nazionalismo”.

Le leadership politiche che, lungo tutta la storia del Novecento, e ora anche nel nuovo secolo globale, hanno utilizzato e utilizzano questa “forza” per conseguire il consenso popolare e assumere e poi controllare in modo autocratico il potere sono al contempo opportunistiche e, in modo più o meno consapevole, almeno potenzialmente criminogene. Oggi non si tratta più solo di leadership espressione di forme di “ipertrofia” dello Stato nazionale di modello europeo e novecentesco (Orban in Ungheria, per citare un caso), ma di leadership espressione di varie e molteplici forme di tribalismo identitario, fondate essenzialmente su caratteristiche etniche e/o religiose, presenti e attive in tutti i continenti. Per fare solo qualche esempio, il nazionalismo induista e anti-islamico del leader indiano Narendra Modi. Le varie forme di tribalismo islamista insediate in Medio Oriente (al-Qaeda ecc.) ma presenti anche in Africa come il movimento di Boko Haram in Nigeria, che alimentano il terrorismo transnazionale in Europa e in tutto il mondo. Il neo-nazionalismo identitario di Xi Jinping nel contesto del capitalismo autoritario cinese gestito da un partito che continua a definirsi comunista e che si è messo alla guida di campagne di educazione patriottica e di repressione delle minoranze etniche e religiose (gli Uiguri, turcofoni di religione islamica, ad esempio, che una legge recente prevede di “sinizzare” entro 5 anni). La Russia di Putin, per il quale “le idee liberali sono obsolete” e “nessuno vuole i migranti”, e dal quale provengono sostegni e finanziamenti ai movimenti neo-nazionalisti e populisti europei, in un paradossale ma anche esplicito accordo con Trump, per il quale America First, e dunque l’Unione Europea è un nemico da distruggere, come pensa anche il leader russo. Ancora, e per concludere questa del tutto parziale casistica, il buddismo radicale e violento in Myanmar e in Sri Lanka, rivolto soprattutto alla repressione e alla eliminazione delle comunità musulmane locali.

Come si vede, nazionalismi e tribalismi identitari di origine novecentesca non sono finiti con la globalizzazione, sono divenuti anzi in qualche modo più diversificati, estesi e pervasivi. Ci sono, a mio parere, almeno due ragioni che spiegano questo processo. La prima ragione è collegata ai mutamenti economici, sociali e culturali, e quindi in definitiva in senso lato politici, che la globalizzazione neo-liberista e ingovernata ha determinato. La crescita delle disuguaglianze, la crisi delle classi medie, l’incertezza nelle condizioni di lavoro e di vita, la crisi dei sistemi di protezione sociale determinata soprattutto dalla mobilità dei capitali che rende difficili le politiche fiscali redistributive, lo spaesamento antropologico e culturale, la perdita di identità in un mondo sempre più dominato da flussi transnazionali e globali (di persone, di merci, di capitali, di segni ecc.) che attraversano i territori hanno dato vita a società in cui, come ha scritto nel 2017 il politologo bulgaro Ivan Krastev, si formano sempre più spesso “anxious majorities”, segnate da fenomeni diffusi di angoscia esistenziale. Proprio su questo sempre più esteso nuovo mondo di interessi e di emozioni fanno leva le leadership opportunistiche e nazionalistiche in ascesa. Trump, leader dell’ultima super-potenza mondiale oggi al tramonto, ne è un esempio significativo: un imprenditore miliardario maestro nell’elusione e nell’evasione fiscale che si presenta come rappresentante degli esclusi, come garante degli interessi popolari, “noi” (il popolo e i suoi capi) contro “loro” (i migranti, le minoranze, le élites globali di cui peraltro Trump stesso ovviamente fa parte). Si può capire facilmente perché in questo processo, in America quanto in Russia e in Europa, anche l’antisemitismo sia tornato di moda, come modello di riferimento storicamente rilevante, il più significativo del Novecento, per ogni altra forma di contrapposizione fra “noi” e “loro”.

La seconda ragione della crescente diffusione dei nazionalismi e tribalismi identitari nell’età della globalizzazione è legata alla grande rivoluzione scientifica e tecnologica, anzitutto nelle comunicazioni e nei trasporti, in atto nei decenni più recenti. Questa rivoluzione ha anzitutto fatto crescere in modo straordinario il livello di interdipendenza fra le varie parti del mondo, in passato fortemente limitata dalle barriere del tempo e dello spazio. Di conseguenza, nazionalismi e tribalismi percorrono più facilmente i paesi e i continenti, si scambiano più facilmente esperienze ed attori. In secondo luogo, questa grande trasformazione ha per così dire “liberato” gli individui, attraverso la rete e i social media, dai tradizionali intermediari del dibattito pubblico (agenzie formative, partiti e movimenti associativi ecc.). Ma questa liberazione è carica di ambiguità e e di pericoli: individui sempre più soli e culturalmente indifesi percorrono l’ “oceano” della rete e rischiano sempre più spesso di “annegare”, cioè di cadere vittime delle leadership opportunistiche, e in qualche caso anche esplicitamente criminogene, presenti e attive nel mondo. Il nazionalismo identitario è venduto da queste leadership sul mercato della politica, ai fini della conquista e del mantenimento del potere, come “una sorta di antidepressivo” (così lo definisce la semiologa e psicoanalista di lingua francese Julia Kristeva). Un farmaco da assumere in dosi crescenti, anche a rischio di una totale dipendenza, fino alla completa guarigione.

Può essere utile, per capire meglio i processi in corso e per concludere, fare un passo indietro. Ridare vita alla memoria, in un’epoca come la nostra in cui l’amnesia, la perdita della memoria, si configura sempre più, in tutta l’Europa e in tutto l’Occidente, come “malattia dell’anima” e come condizione che favorisce il rinascere, in forme nuove, di tribalismi e nazionalismi identitari. Il Novecento, come è noto, ha conosciuto, teorizzato e praticato la logica della contrapposizione fra “noi” e “loro”, fino all’esperienza estrema della “soluzione finale” hitleriana. Se “loro” sono un pericolo mortale per “noi”, e se “loro” non si rendono disponibili a diventare come “noi”, non resta altro, per salvarci, che l’eliminazione fisica. Così la pensano, in sostanza, i terroristi islamisti, i nazionalisti induisti, i nazionalisti buddisti del Myanmar, i suprematisti bianchi americani e non, e tutti i numerosi altri che li accompagnano delle più diverse culture e appartenenze.

Ma bisogna anche sapere, e l’esperienza storica del Novecento lo insegna, che la logica del “loro” e del “noi” non è soltanto omicida, ma è anche nel contempo suicida. Come è noto, infatti, “loro” e “noi” spesso nella storia invertono i ruoli, con esiti letali già per i contemporanei, o in altri casi per i figli e i nipoti. In quest’ultimo caso, un “regalo”, non desiderato né meritato, ai discendenti da parte delle leadership politiche che detengono il potere e guidano i popoli.

Il 1945 della Germania e del Giappone, per fare due esempi. Da tempo sappiamo, se lo vogliamo, che dopo l’antidepressivo non c’è alcuna guarigione, più semplicemente si muore.

L'articolo è stato pubblicato su The Federalist Debate n.1/2020

Autore
Giampiero Bordino
Author: Giampiero Bordino
Bio
Docente di storia e filosofia e saggista, militante federalista. Ha pubblicato manuali di storia per scuole e Università e volumi di saggistica politica e storiografica. E’ membro della redazione della rivista quadrimestrale in lingua inglese The Federalist Debate. E’ presidente del Centro Einstein di Studi Internazionali (CESI).

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