di Salvatore Sinagra
Dopo la crisi di Lehman Brothers e quella del debito sovrano non era difficile immaginare che qualcuno potesse guardare a modelli alternativi a quello europeo, così c’è chi sostiene che non possiamo permetterci il welfare e guarda agli Stati Uniti, peccato che la crisi è partita proprio dal continente americano; chi è entusiasmato dalla Cina perché pensa che le dittature rispondano più rapidamente alle crisi e siano più coerenti con i tempi della globalizzazione, peccato che l’unica cosa che abbiamo capito dalla ultima bolla è che la leadership di Pechino è tutt’altro che infallibile nella gestione dell’economia; e poi c’è chi guarda a modelli improbabili come l’Ungheria. Colpisce che qualcuno, che magari si definisce progressista, critichi Angela Merkel che accoglie i migranti e giustifichi Orbán che li perseguita.
Secondo la vulgata degli antisistema Budapest in questi anni, non rispettando nessuno dei paletti imposti dall’UE, avrebbe salvato dalla povertà gli ungheresi. La ricetta magica sarebbe una tassa sulle banche e sulle multinazionali. Degno di attenta analisi è il post dedicato all’Ungheria sul blog di Beppe Grillo.
Quando leggo certe dichiarazioni d’amore per l’Ungheria di Orbán non posso far altro che pensare al capolavoro “guascone” Goodbye Lenin, in cui i figli di una militante comunista entrata in coma prima che cadesse il muro, al suo risveglio dopo il crollo del muro, per evitarle nuovi traumi simulano con tanto di tg in videocassetta la vita della Germania dell’est che continua e diventa sempre più bella. Si, quando leggo chi loda Orbán penso alla meravigliosa scena di Goodbye Lenin, in cui la madre che si è svegliata dal coma vede le folle che passeggiano sui resti della DDR e il figlio le racconta che sono profughi dell’ovest, fratelli tedeschi che scappano dalle miserie del capitalismo a cui il nuovo presidente ha aperto le frontiere.
Non basta però banalizzare, e chiedere a Salvini e Grillo se manderanno i loro figli a vivere in Ungheria; la storia ci obbliga a ragionare sulla frattura nord-sud che già un gigante come Willy Brandt aveva previsto che sarebbe diventata sempre più rilevante, e sulla frattura ovest-est che è tutt’altro che superata. Un’ampia riflessione è necessaria sui paesi dell’UE che un tempo facevano parte del Patto di Varsavia, sul loro ruolo nell’Unione Europea e sul loro rapporto con il modello europeo, di cui sono elementi irrinunciabili il welfare state e la democrazia. In Europa orientale il welfare state, salvo limitate eccezioni, è inesistente e alcuni paesi che un tempo erano al di là dell’ex cortina di ferro sono colpiti dalla povertà più della Grecia. Quindi non basta attaccare a testa bassa il premier ungherese, che intendiamoci è assolutamente impresentabile, ma occorre anche chiedersi su quali basi Orbán ha costruito il suo successo. La crisi ormai quasi decennale ha limitato lo spazio per il dibattito sulla “questione orientale”. Certo mi rende perplesso il fatto che chi in Italia sostiene misure redistributive come il reddito minimo, poi glorifichi Orbán che tanto punta sulla lotta alla povertà, ma non ha mai superato la flat tax, l’imposta con una solo aliquota per tutti i redditi delle persone fisiche, partorita da economisti che gravitavano attorno a Reagan, che non credo qualcuno possa affermare fosse un antiliberista sempre dalla parte dei deboli.
Non voglio entrare nel merito di tante controverse misure economiche del governo ungherese, né su chi in Europa debba fare di più o fare di meno per i migranti; sento solo il dovere di prendere posizione sulla questione rifugiati. Io ho sempre espresso dubbi sulla linea economica dettata da Angela Merkel e ho sostenuto la campagna di NewDeal4Europe anche con il fine di dare un’alternativa europea credibile e sostenibile alla proposta politica della cancelliera, ma sui rifugiati so da che parte stare. Chi sta con Orbán è fuori dall’Europa e il fatto di essere in disaccordo con le politiche dei singoli governi o con le politiche delle istituzioni europee, mai dovrebbe portare a speculare su iniziative come l’accoglienza che i tedeschi stanno dando ai siriani, e non solo ai siriani, perché in questi mesi sono arrivate in Germania decine di migliaia di profughi che non sono siriani.
Tutto ciò non toglie che oggi serve un’Unione Europea o un’area euro con maggiore intensità politica; con l’apertura ai siriani la cancelliera ha di fatto dichiarato l’inefficienza e l’inefficacia dell’Unione Europea, occorre quindi costruire insieme quella politica dell’immigrazione europea che mai i governi nazionali hanno avuto il coraggio di proporre a partire dal diritto di asilo europeo, anche perché oggi Dublino II, un accordo che serve a deresponsabilizzare gli Stati, è un fallimento non solo sul piano umanitario.