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Europa in Movimento

| Verso un'Europa federale e solidale

Donald Trump e Hillary Clinton

L'opinione pubblica e l'attenzione della stampa in Italia sono state monopolizzate dal referendum costituzionale, ma il 2016 e' stato e sarà un anno di grandi scadenze elettorali in tutto il mondo, si pensi al referendum sulla Brexit, a quello sulla pace in Colombia, alle elezioni regionali che in Francia e Germania potevano dare un forte impulso all'estrema destra e al confronto tra Hillary Rodham Clinton e Donald Trump del prossimo 8 Novembre.
Le presidenziali americane sono in assoluto la scadenza elettorale che comunque andrà a finire condizionerà di più il nostro futuro. Anche se Trump non avesse fatto ampio ricorso alla retorica populista, anche se il magnate newyorkese fosse completamente fuori dalla partita queste elezioni sarebbero uno spartiacque per il mondo.

Per la prima volta dopo molti decenni si confrontano due candidati che, seppure con due approcci differenti, sono scettici sul libero commercio. In questo senso possiamo affermare che il fenomeno Trump ha radici antiche, che risalgono almeno agli anni ottanta. Se Bill Clinton e' stato il presidente che ha lanciato la NAFTA, l'area di libero scambio tra Stati Uniti , Messico e Canada, Bush Jr ha provato estendere l'area di libero scambio a tutto il continente americano e l'amministrazione Obama si e' spesa per chiudere un ambizioso accordo di libero scambio, il TTIP, di sicuro il prossimo presidente degli Stati Uniti non concluderà accordi di libero scambio.

Il giorno della prima elezione di Obama il suo avversario repubblicano John McCain ebbe modo di dichiarare che Obama era stato il suo avversario, ma adesso era il suo presidente. Questo tipo di dichiarazioni, difficilmente immaginabili in Europa, hanno a lungo alimentato, soprattutto a destra, la convinzione della superiorità del modello americano, in cui destra e sinistra collaborano per il bene del paese ed in cui non c'è spazio per gli estremisti. In realtà i vent'anni seguiti alla fine della guerra fredda sono stati caratterizzati, almeno sul piano della comunicazione, dall'avvicinamento tra democratici e repubblicani. Bill Clinton e' stato un esponente dei New Democrats, fautori della svolta centrista, ha espresso posizioni nette su scuola e sanità, ha propugnato una politica fiscale moderatamente redistributiva ma e' stato assai vicino a repubblicani su finanza e globalizzazione. L'avvento di Obama, un presidente che le frange razziste dell'elettorato di destra considerano un infiltrato straniero, ha fatto crescere la conflittualità. Oggi molti esponenti repubblicani di grande visibilità non esitano a definire Hillary Clinton una criminale, Trump promette che farà arrestare la sua avversaria e afferma che potrebbe non riconoscere un'eventuale sconfitta elettorale.

L'America pare quindi non essere più la terra dei moderati. Una vittoria di Trump sarebbe un vero proprio disastro. Per cercare di capire il futuro bisogna fare due viaggi nel passato, con un primo passo indietro, abbastanza corto, dobbiamo tornare alle recenti primarie democratiche e repubblicane, con un secondo passo indietro molto più lungo dobbiamo ripercorrere gli anni ottanta e gli anni novanta.

Durante le primarie Trump e' stato il Beppe Grillo della destra americana, uomo osteggiato dalle élite repubblicane, lontanissimo dal politically correct, sostenitore della tesi che negli ultimi decenni sia i democratici che i repubblicani non sono stati in grado di difendere gli interessi americani. Sul fronte democratico la candidata dell'establishment Hillary Clinton ha vinto in modo abbastanza agevole sul Bernie Sanders, che rappresentava l'ala sinistra del partito, favorevole a politiche redistributive ed in particolar modo al taglio delle tasse universitarie ed ad una più stringente regolamentazione del settore bancario. Sanders pur perdendo ha sdoganato in America un certo tipo di sinistra. E' significativo che Sanders abbia avuto un grande successo tra i giovani e che la parola socialista non spaventi molti americani che hanno vissuto gran parte della loro vita dopo il 1989.
E' evidente che la classe media impoverita e la classe operaia negli Stati Uniti hanno voglia di una profonda rottura con il passato, per questo un outsider che fino a pochi anni fa sarebbe stato agli occhi degli americani improponibile oggi nella peggiore delle ipotesi (per lui) chiuderà a 4 o 5 punti di distacco da Hillary Clinton.

Lo slogan di Trump e' Make America Great Again. Nella prospettiva del magnate i politici sia democratici che repubblicani in questi anni non hanno difeso gli americani, hanno indebolito gli Stati Uniti che sarebbero cresciuti meno di quanto avrebbero potuto. La realtà e' ben diversa.
Gli Stati Uniti, che fin dalla seconda metà degli anni settanta hanno subito pesanti delocalizzazioni in Asia, hanno risposto nel complesso bene alle nuove "divisioni internazionali del lavoro". La manifattura tradizionale dall'altra parte dell'Atlantico e' stata rimpiazzata da nuove manifatture, dalle biotecnologie e dalle nanotecnologie, da Microsoft e dai giganti di internet e del mondo dei social network.
In America non c'è un problema di produzione ma di redistribuzione.
La crisi iniziata nel 2007-2008 negli Stati Uniti ha causato più danni in Europa che dove è nata solamente perché gli Stati Uniti hanno molte più imprese innovative. Non e' un caso che nessun colosso tra IBM, Microsoft, Apple, Facebook, Twitter, Netflix sia nato in Europa e per il prossimo futuro, in cui si intravede una nuova ondata di automazione, con un uso sempre maggiore di droni, stampanti 3D e sensori sembra la musica non cambierà.
Tutto questo evidentemente non basta ad una buona fetta di Americani.
Spiega Enrico Moretti docente italiano della prestigiosa università di Berkeley che le deindustrializzazioni e le nuove produzioni hanno creato una nuova geografia del lavoro, con contee che hanno vinto e contee che hanno perso (1). Ciò ha comportato una crescita delle disuguaglianze tra città, tra classi sociali e addirittura tra quartieri all'interno delle stesse città.
Fin dagli anni ottanta con l'espressione rust belt (cintura della ruggine) e' stata identificata l'area un declino demografico e industriale tra il nordest degli Stati Uniti, i grandi laghi e il midwest; un romanzo dal titolo Ruggine Americana è stato un buon successo editoriale. Nella rust belt Trump ha spopolato e Clinton ha fatto gran fatica contro Sanders (2).

Dalla metà degli anni settanta gli stipendi sono cresciuti meno della produttività del lavoro ed è cresciuto il divario tra le retribuzioni dei laureati e degli altri americani, non perché è stato premiato il merito, ma perché a causa delle delocalizzazioni, della desindacalizzazioni e della tecnologia sono collassate le retribuzioni dei lavoratori non qualificati (3). I democratici che pure con Bill Clinton ed Obama hanno combattuto una grande battaglia per l'universalizzazione della copertura sanitaria non sono per troppi anni riusciti ad affrancarsi dalla convinzione che il crollo dei salari reali si potesse sopperire con un più facile accesso ai canali bancari. Gli effetti di tali politiche sono Stati la crescita del numero di americani proprietari di casa ma anche la diffusione di pratiche quali la concessione di credito al consumo a chi aveva pochi redditi ma una casa con valore in crescita, la crescita senza precedenti del prezzo degli immobili nei quartieri periferici e popolari, l'esplosione del debito degli studenti universitari. L'economista indiano-americano Raghuram Rajan, che un tempo avremmo definito liberista, nel suo libro terremoti finanziari scrive ironicamente "che mangino crediti"(4). Infine la crisi che ha portato al tracollo di Lehman Brothers non è stata sufficientemente compresa. Il collasso del sistema bancario non e' stato in prima battuta frutto dell'avidità di qualche banchiere, che pure dovrebbe pagare molte più tasse sui suoi redditi e dovrebbe portare via dalla sua società molte meno risorse, ma e' stato frutto del tentativo di superare le contrapposizioni sociali figlie della crescita delle disuguaglianze con la finanziarizzazione dell'economia. I benefici di questo approccio sono stati pochi, i costi immensi.

Con Barack Obama, grazie alla combinazione di politiche monetarie e politiche fiscali espansive il pil e' ripartito e il tasso di disoccupazione degli Stati Uniti e' sceso velocemente avvicinandosi al 4% che si registra in Germania e che alcuni economisti chiamano tasso di disoccupazione naturale, ovvero quel tasso di disoccupazione che viene rilevato, per pure convenzioni statistiche nelle economie molto produttive che di fatto sono caratterizzate dalla piena occupazione.
Oggi c'è una questione al centro della politica americana: la piena occupazione non basta più a garantire il successo nella lotta contro povertà e la diminuzione della disoccupazione non sempre comporta una diminuzione delle disuguaglianze. Innumerevoli articoli raccontano dei troppi americani che non riescono a liberarsi dalla morsa dei debiti (5). La crescita debito privato e' trainato da quella dei debiti contratti per motivo di studio(6).
Dice il premio Nobel per l'economia Joseph Stiglitz che gli Stati Uniti sono ingiustamente considerati una terra di opportunità. Dalla lettura dei libri che il Nobel ha scritto negli ultimi anni si percepisce un forte scetticismo sul sistema-America (7); fino ad un paio di anni fa persino un lettore europeo di sinistra avrebbe considerato esagerate certe posizioni di Stiglitz sull'economia americana, oggi troppi americani devono scegliere tra una vita di basse retribuzioni o una vita da passare a pagare debiti contratti per fare l'università. Le elevate disuguaglianze americane sono tollerabili solo se sussistono due presupposti: la piena occupazione garantisce a tutti un livello di consumi accettabile senza annegare nei debiti e la mobilità sociale consente non solo a chi è nato ricco di avere una piccola fetta dei benefici della crescita.
Il professor Alesina, docente di economia politica, in un articolo pubblicato sul Corriere della Sera ha qualificato come incomprensibili le posizioni di chi alle primarie ha votato per Trump e Sanders. Secondo Alesina un marziano che avesse assistito alle primarie americane avrebbe potuto concludere che negli Stati Uniti c'è una disoccupazione molto più elevata che in Europa, in realtà accade esattamente il contrario (8). Tale prospettiva trascura almeno due elementi essenziali: la rabbia dell'americano impoverito non si può certo placare adducendo che i portoghesi, gli spagnoli e i greci stanno peggio degli americani, la povertà e le disuguaglianze sono temi caratterizzati da dinamiche globali ma analizzati con occhiali nazionali, inoltre la disoccupazione e i salari bassi pesano di più negli Stati Uniti dove la sanità e l'istruzione sono costose che in Europa dove c'è una vasta rete di servizi pubblici.
Sono assai sensate le analisi sociologiche sull'ansia dell'americano bianco e sulle paure di perdere l'identità nella globalizzazione, tuttavia le ragioni del terremoto americano sono soprattutto economiche.

Nonostante l'americano medio faccia fatica ad avere fiducia in Hillary Clinton le proposte della ex first lady appaiono più sensate di quelle del suo facoltoso sfidante. Hillary Clinton, anche recependo molte proposte del suo ex sfidante Sanders sostiene la necessità di investimenti pubblici, di un aumento dei congedi parentali e di un taglio ai debiti degli studenti universitari; dall'altra parte Trump oltre a proposte populiste come i muri e l'eliminazione delle élite inette promette di tagliare le tasse. In un contesto di disuguaglianze e piena occupazione l'agenda di Trump anche se purificata da elementi irrealistici e populisti sarebbe assai dannosa. L'agenda d Hillary Clinton sarebbe invece la vera svolta, probabilmente anche rispetto a quella del marito.
Non è un caso che Bernie Sanders, Elisabeth Warren, la senatrice che si batte per una regolamentazione stringente del settore bancario e per i diritti dei consumatori e Joseph Stiglitz (9) supportino Hillary.
La Clinton potrebbe essere il presidente più preparato degli ultimi 50 anni, se Clinton vincerà le elezioni, se terrà fede alle sue promesse e se avrà il coraggio di rivedere in chiave critica gli ultimi trent'anni di storia americana si potrà aprire una nuova fase della globalizzazione, con Trump alla casa bianca rischieremmo solo di avere una nuova agenda Bush ancora più sbilanciata a destra e ancora più messianica che prende le mosse da un'analisi economica sbagliata.

Approfondimenti:
(1) E. MORETTI, La nuova geografia del lavoro, Mondadori, Milano, 2014
(2) M.PLATERO, anche la rust belt sceglie Trump, Il Sole24ore, 10 marzo 2016
(3)D.H.AUTOR, skills education and the rise of income inequality among the other 99%. Science. 23 Maggio 2014
(4)R.G.RAJAN, Terremoti finanziari, come le fratture nascoste minacciano l'economia globale , Einaudi, Torino, 2014
(5) F.PAVESI, il debito mondiale vale tre volte il Pil, il sole24ore, 19 luglio 2015. pavesi scrive che negli Stati Uniti la somma di debito pubblico e privato ammonta al 270 % del Pil. Si veda anche l'internazionale nro 1131 del 4/10 dicembre 2015 intitolato debiti senza fine
(6) A. MAGNANI, Negli USA si gonfia la bolla dei debiti universitari, ogni laureato ha un debito medio di 28.000 dollari. Il Sole24ore 25 novembre 2014
(7) J.E.STIGLITZ, il prezzo della disuguaglianza, come la società divisa di oggi minaccia il nostro futuro. Einaudi. Torino.2014; J.E.STIGLITZ, la grande frattura, la disuguaglianza e i modi per sconfiggerla. Einaudi. Torino. 2016
(8) A.ALESINA, la crisi che non c'è (nonostante i pessimisti), Corriere della Sera, 6 Marzo 2016
(9) J.E.STIGLITZ, Perché Trump non deve stupirci, tradotto in italiano dall'internazionale nro 1177 28 ottobre/3 novembre 2016

Autore
Salvatore Sinagra
Author: Salvatore Sinagra
Bio
Nato a Palermo nel 1984. Laureato in Economia e legislazione per l’impresa all’Università Bocconi. Vive a Milano. Si occupa di valutazione di partecipazioni industriali e finanziarie. È un convinto sostenitore del federalismo europeo e della necessità di piani di investimento europei che rilancino il tessuto industriale europeo puntando sulle nuove tecnologie. E' membro del comitato centrale del Movimento Federalista Europeo dal 2015.
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