Si sono svolte domenica 8 aprile le elezioni generali in Ungheria. 199 i seggi da assegnare: 106 con il sistema uninominale e 93 con il proporzionale, con soglia di sbarramento al 5% per i singoli partiti e al 10% per le coalizioni di 2 partiti.
Le elezioni, come si vede dalla tabella, sono state vinte in maniera schiacciante dalla coalizione FIDESZ-CDNP del premier Viktor Orban, che si conferma premier per la terza volta consecutiva. Dal 2010 l’Ungheria è governata con una solida maggioranza dal partito FIDESZ, alleato con i cattolici conservatori del CDNP, che, benché aderente al Partito Popolare Europeo, è stato condotto dal suo leader e primo ministro Viktor Orban su posizioni decisamente euroscettiche e addirittura autoritarie in politica interna (magistratura e banca centrale soggette al controllo politico, limiti alla libertà di stampa), tanto che la Commissione europea a più riprese ha stigmatizzato i provvedimenti del governo ungherese fino ad intraprendere una procedura di infrazione.
PARTITO /COALIZIONE |
% VOTO |
SEGGI |
LEADER |
![]() |
48,5 |
133 |
Viktor Orbán Destra (PPE) |
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12,4 |
20 |
Gergely Karácsony Socialisti |
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19,5 |
26 |
Gábor Vona Estrema destra |
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2,6 |
1 |
Péter Juhász Socialdemocratico
|
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5,6 |
9 |
Ferenc Gyurcsányi Social-liberali
|
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6,9 |
8 |
Bernadette Szél Verdi |
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2,8 |
0 |
András Fekete-Győr Centro-destra |
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1,7 |
0 |
Gergely Kovács Comico irridente |
Queste elezioni confermano l’orientamento ungherese nei confronti dell’Unione Europea; l’Ungheria fa parte, insieme a Polonia, Cekia e Slovacchia, del cosiddetto “gruppo di Visegrad” i cui leader rappresentano la punta avanzata delle forze nazionaliste in Europa.
Il gruppo di Visegrad era nato nel 1991 per iniziativa di leaders illuminati come il polacco Walesa il ceco Havel e l’ungherese Antall, come un coordinamento dei paesi usciti dal comunismo e desiderosi di consolidare la democrazia liberale interna attraverso l’adesione alla Unione Europea e ai suoi valori, poi, dopo l’adesione all’UE avvenuta nel 2004, il gruppo si è caratterizzato, insieme alla Gran Bretagna, come fautore del mantenimento di maggiori competenze a livello nazionale e limitazioni alle presunte “ingerenze” dell’Unione Europea. Dopo l’arrivo al potere nel 2010 in Ungheria di FIDESZ e nel 2015 del partito conservatore PIS in Polonia, i leaders del gruppo di Visegrad hanno cavalcato a scopo interno il tema dell’immigrazione e paventato il rischio di islamizzazione della società europea indicando come “nemico esterno” l’Unione europea che avrebbe favorito l’ondata migratoria minando in tal modo le radici cristiane della società europea. Questa posizione è stata premiante dal punto di vista elettorale sia in Ungheria che in Polonia, ove l’opposizione democratica e di sinistra è stata addirittura esclusa dal parlamento.
Il fenomeno dell’avanzata dei partiti populisti e nazionalisti non è un fenomeno limitato ad alcuni paesi ex comunisti dell’est, ma riguarda l’intera Europa: la Brexit in Gran Bretagna, le affermazioni di Lega e 5 stelle in Italia, la coalizione al governo in Austria sono fenomeni analoghi anche se ognuno con specificità differenti.
Le spiegazioni di tali fenomeni possono essere molteplici a seconda dei criteri di analisi adottati ed ognuno ha una sua parte di verità. Per noi federalisti la ragione fondamentale che sta alla base dell’avanzata dei nazionalismi risiede proprio nella crisi dello stato nazionale; infatti per le sue dimensioni economiche e per la sua irrilevanza geopolitica ogni singolo stato europeo non ha i mezzi per governare gli effetti della globalizzazione quali lo strapotere della finanza internazionale, i flussi migratori, la diffusione delle mafie. Questa incapacità strutturale degli stati nazionali a governare fenomeni sovranazionali crea un senso di insicurezza facilmente sfruttabile da forze populiste che indicano nelle politiche dell’Unione Europea la responsabilità di questo stato di cose e indicano come soluzione il riappropriarsi della sovranità in campo economico (sganciandosi quindi dai vincoli del mercato unico e della moneta unica) e l’utilizzo di metodi autoritari in tema di sicurezza e immigrazione.
Il caso ungherese non sarà certo l’ultimo se non si affermerà nell’Unione Europea un deciso cambio di rotta nelle politiche europee che dimostri nei fatti come l’Unione sia in grado di affrontare la crisi occupazionale, i ritardi nella ricerca e nell’istruzione e la sua irrilevanza in politica estera. Condizione di questo salto di qualità è, da un lato, un aumento delle risorse finanziarie proprie attraverso sistemi di fiscalità sovranazionali (web tax, carbon tax, tassa sulle transazioni finanziarie) e, dall’altro, una riforma dei trattati in senso federale (potere di tassazione e/o di indebitamento, poteri al Parlamento Europeo e fine del criterio dell’unanimità nelle decisioni di politica estera e fiscali). Senza una riforma federale l’Europa rischia di ritornare alla tragedia dei nazionalismi del XX secolo, cosa cui non vorremmo assolutamente assistere.