Le persone «arrivate illegalmente dovrebbero essere rastrellate e deportate», ha detto il premier ungherese Viktor Orbán.
Si possono dire tante cose quando si vive in un consesso dove la democrazia è qualcosa di acquisito ma non assolutamente garantito quando si toccano le sorti di vite umane.
Da quel muro eretto alla frontiera meridionale nel 2015 l’escalation avviata dall’Ungheria è una vera e propria dimostrazione di forza che si è concretizzata oggi con l’opposizione al principio del ricollocamento obbligatorio per i Paesi UE da parte dei Paesi dell'Est, che vogliono una «solidarietà flessibile». Orbán ha annunciato che il 2 ottobre si terrà un referendum sul principio del ricollocamento.
Dove dovrebbero essere ricollocati gli immigrati illegali? Lui la risposta ce l’ha pronta: «in una isola o sulla costa del Nord Africa!»; l’Unione Europea - sempre secondo questo luminare della scienza politica – dovrebbe garantire «la sicurezza e i rifornimenti della località». Tutto ciò per evitare che gli stessi immigrati possano presentare domanda di asilo nel Paese di arrivo.
Ma di quali numeri stiamo parlando? 4.140 persone sono state ricollocate dalla Grecia e 1.156 dall'Italia, ben poca cosa se si pensa che il totale previsto nel 2015-2017 è di 160.000.
Orbán ha iniziato la sua avventura politica con l’Alleanza dei Giovani Democratici (Fidesz), puntando all’anticomunismo tanto necessario quanto opportuno per svincolarsi definitivamente dalla oppressione, non solo ideologica, del blocco sovietico, per un Paese sempre al limite delle invasioni e forzatamente preda. Ma il top lo raggiunge quanto diventa punta di riferimento dell’attacco dell’Unione Civica Ungherese nella metà degli anni ‘90, che, a dispetto del suo brillante intellettualismo di oggi, propugnava una evoluzione in senso liberale e progressista per il Paese e soprattutto lo vedeva impegnato nella battaglia per i diritti civili. E già! E’ al timone dell’Ungheria dal 2010, ma prima ancora ne è stato premier di primo governo durante la fine del decennio degli anni ’90 traghettando il Paese nella Nato. “Repubblica di Ungheria” gli stava stretto e ha mutato (insieme a tante parti della Costituzione) il nome in “Ungheria” quasi il termine potesse infastidire le ambizioni nobiliari del premier. Da qui la svolta definitiva e conservatrice definitiva, appunto, col secondo governo. Comincia a scagliarsi contro «i poteri forti e le multinazionali che vogliono comandare in casa d’altri»; diventa promotore assoluto del Dio, Patria, famiglia in vinetas kenyer, in salsa ungherese, dove al Dio manca la “D”, alla Patria preferisce la nazione, alla famiglia l’interesse personale…
Ha formato con il capo polacco Jaroslaw Kaczynski una banda di «ladri di cavalli», come è stata definita (1), una quindicina di giorni fa a Krynica, nel sud della Polonia, dove per la prima volta si sono presentati al grande pubblico, non solo europeo.
Altiero Spinelli nel saggio “Gli Stati Uniti d’Europa e le varie tendenze politiche” inserito nel volume “Problemi della federazione europea” (edizione del 1944), che contiene anche il testo del Manifesto di Ventotene, scrisse: “L’assurda anarchia dell’organizzazione internazionale europea è il terreno più propizio che sia possibile immaginare per l’esplicazione piena del razzismo”. Già perché al di là del populismo estremista anche volendo politicamente corretto c’è una base che è ancor più grave e imponente, lo sfondo razziale di tutte le mosse politiche messe in campo anche da personaggi che oggi governano alcuni Paesi dell’UE. “A pensar male si fa peccato, ma a volte ci si azzecca!”. Lo storico “adagio” andreottiano torna utile per questo soggetto della sceneggiata ungherese. Che voglia davvero utilizzare lo strumento del razzismo per estorcere utilità nazionaliste, egoistiche, alla nostra Unione?