Il referendum sulla riforma costituzionale italiana ha consegnato al Paese una crisi di governo risolta in pochi giorni che sollecita alcune riflessioni che possiamo mutuare dalle parole di Renzi. La “sua” riforma avrebbe portato due meriti fondamentali: avrebbe eliminato il “doppione” Camera e Senato, causa della lentezza della macchina legislativa, e sarebbe stata a favore del cittadino e contro la cosidetta “Casta”, riducendo i costi della politica.
Ma il vero fronte contro il quale, nelle intenzioni di Renzi, la “lotta” politica sul referendum sarebbe stata fatta a norma approvata, era la demagogica deriva populista che, a detta dell'ex Presidente del Consiglio, era rappresentata da chi avrebbe votato “No” nello stesso gruppo reazionario appartenente a livello mondiale ai vari Le Pen, Trump e ai pupilli della Brexit.
La sconfitta del “Sì” ha riaperto i giochi dell’assetto di governo in Italia, portando il Paese presto o tardi, dipende dai punti di vista, a nuove elezioni politiche.
Le tre forze politiche principali che si sviluppano intorno a figure come Renzi, Grillo e al duo Berlusconi/Salvini possono contare su un consenso elettorale, cadauno, del 25/30%. Come è stato osservato con meno di un terzo dei consensi (considerando che vota solo il 60% degli aventi diritto, dunque con il sostegno di poco più di un quarto dei cittadini) il vincitore avrà poteri che – qualcuno lamenta - la tradizione liberaldemocratica ha sempre considerato proto-totalitari.
Ma l’errore più grande che si può fare è lasciare in pasto a uno pseudo antieuropeismo il voto negativo alla riforma costituzionale, sia nella sostanza della riforma stessa, sia per gli effetti che essa ha ora sugli equilibri di governo in Italia.
WeMove.eu un movimento di cittadini, che si batte per un’Europa dedicata alla giustizia sociale e alla sostenibilità ambientale, e per una democrazia concretamente diretta dai cittadini ha promosso un sondaggio. Ebbene i tre quarti dei membri di WeMove in Italia, che hanno partecipato al sondaggio, hanno detto che avrebbero votato “No” al referendum; il 90% di questi, nel caso di un referendum per l’uscita dell’Italia dall’Europa, voterebbe a favore della permanenza all’interno dell’UE.
Mi sento di condividere questo pensiero del movimento WeMove. Le voci che si sono levate non appartengono a un gruppo di persone che sostengono i partiti populisti anti-europei. Probabilmente siamo di fronte a voci di persone, stanche di una politica che non funziona, che si rifiutano di votare per l’establishment, per paura di cosa potrebbe avvenire in seguito.
Altro aspetto del voto referendario del 4 novembre riguarda la generazione di giovani che è trovata davanti al seggio per scegliere una riforma di tale portata. Per la prima volta sono stati proprio i giovani che hanno condizionato il risultato elettorale (qualcuno ricorderà una similare analisi in occasione del referendum sulla Brexit) e in questo modo si sono posti come baricentro decisionale anche per il futuro.
Analizzando i comportamenti dei giovani dai 18 ai 35 anni la percentuale di chi si è astenuto vale il 28-30%. I “Sì” possono essere pesati attorno al 23-25% e i “No” invece arrivano a una quota oscillante tra il 47-48%. Un segnale di spaccatura che non va utilizzato a ragioni di partito o di schieramento. E’ una generazione che sconta l'esclusione dal lavoro. E forse ha utilizzato il voto per manifestarsi.